Fotografi di fama internazionale Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni hanno di recente vinto il primo premio della categoria “Discovery” ai Sony World Photography Awards 2019 con il progetto Güle Güle di cui vi presentiamo qui alcuni scatti. I due fotografi iniziano una proficua collaborazione a partire dal 2013, focalizzata in particolare sulle storie umane dietro ai grandi avvenimenti politici, sociali e ambientali. Fra i temi trattati, la rivoluzione ucraina e la guerra del Donbass, la migrazione sulla rotta balcanica, l’ILVA di Taranto. Oltre alle diverse mostre personali, alle collaborazioni con importanti testate giornalistiche e ai numerosi riconoscimenti internazionali, i loro lavori sono stati pubblicati in quattro libri di fotografia in bianco e nero (Rhome, Forcella, Same Tense e Daily Bread). Da anni impegnati in un progetto a lungo termine sulle “città in transizione”, Caimi e Piccinni approdano a Istanbul, soggetto del terzo capitolo del loro lavoro. Oltre al documentario fotografico Mega Istanbul incentrato sull’inarrestabile programma di rinnovamento della città da parte dell’amministrazione Erdoğan, con il progetto personale Güle Güle i due fotografi si pongono l’obiettivo di raccontare la complessità della città in un drammatico momento di mutazione sociale e politica. Dietro i soggetti ritratti in questo lavoro si stagliano infatti tematiche quali la gentrificazione, l’emarginazione delle classi più povere, la crescente discriminazione dell’omosessualità, l’afflusso migratorio di rifugiati siriani, la questione curda. Abbiamo posto loro alcune domande su questo lavoro.
Innanzitutto una domanda basilare, perché Istanbul?
Istanbul rappresenta per noi un luogo di forte fascino ed interesse. Da tempo ne seguiamo le vicende politiche, sociali e culturali, e le ricadute di queste sulla vita quotidiana e sui costumi. Negli ultimi due anni ci siamo interessati in particolare a diverse storie, tra cui la realizzazione delle “grandi opere” di Erdoğan, espressione della sua megalomania; il quartiere di Sulukule – oramai diviso tra la storica zona rom e le nuove costruzioni a schiera di prestigio – e la sua scena musicale rap che denuncia tra le altre cose la forte gentrificazione; la figura controversa del predicatore Adnan Oktar, sostenitore del creazionismo islamico, vicino al partito di governo, noto ai più per il suo canale televisivo dove appaiono donne bionde in vestiti succinti, che cantano, ballano e discutono di religione. Mentre queste idee erano in fase progettuale lavoravamo sul campo a Roma, per un corposo progetto personale sulla città, che è quella in cui siamo basati. Conclusa la fase di scatto abbiamo realizzato un menabò cucito a mano, con cui abbiamo partecipato a diversi concorsi, vincendo il FUAM Dummy Book Award di Istanbul. Una fortunata congiunzione astrale che ci ha portarti in Turchia per seguire le fasi di stampa del libro, e dove, vivendo la città quotidianamente, abbiamo subito realizzato che, oltre allo sviluppo di alcune specifiche storie, Istanbul sarebbe diventata la protagonista del terzo capitolo della nostra serie sulle metropoli in transizione, dopo Napoli e Roma.
Prima di Istanbul, quindi, Napoli e Roma. Dal vostro punto di vista ci sono connessioni tra le tre città?
Ciò che crediamo accomuni queste metropoli è la coesistenza di molteplici energie divergenti che creano forti tensioni e contraddizioni. In un contesto in cui il passato e il presente si scontrano creando una profonda incertezza per il futuro, ci sembra che queste città si polarizzano in modo plurimo e scomposto, e che si vengano a creare una serie di microcosmi che difficilmente si legano tra loro. Ad esempio basti pensare alle differenti comunità presenti ad Istanbul, sia etniche che culturali che abbiamo fotografato: dai migranti siriani sostenuti, in parte, dallo stato ai malvoluti curdi e alla comunità Afro a Tarlabaşı, dai conservatori dell’Akp alla comunità Queer. Realtà e contraddizioni che in momenti di crisi e transizione si esacerbano venendo più facilmente a galla. Questa brulicante pluralità umana è ciò che più ci interessa. La relazione diretta e intensa con le persone, la nostra volontà di mischiarci il più possibile nella vita quotidiana ci permettono di penetrare più a fondo nelle vite degli altri traendone una visione complessa del luogo che stiamo raccontando, dal profondo.
Güle Güle è un lavoro che narra le sensazioni personali con la città, le sue innumerevoli storie e si allontana dal classico modo di intendere il reportage. In che modo questo tipo di approccio può condurre a un racconto diverso di una metropoli?
Güle Güle è un progetto documentaristico che si sviluppa con un approccio fotografico libero ed istintivo. Come prima cosa abbiamo costruito un’importante rete di contatti sul campo che ci hanno permesso di accedere ed essere coinvolti nel tessuto connettivo delle città. Partendo da una solida base giornalistica abbiamo scelto di privilegiare la forza visiva ed evocativa delle fotografie rispetto al contenuto meramente didascalico delle immagini che, in questo modo, conservano uno spazio di ambiguità, come fossero enigmi da risolvere. Un approccio che chiede all’osservatore un maggiore sforzo di approfondimento ma che lascia anche un più ampio spazio interpretativo ed emotivo e che invece permette a noi di essere liberi da una griglia narrativa precostituita. Ciò che ci auguriamo di suscitare è curiosità, interesse, dubbio. Ad esempio: chi è quella bambina con gli occhi di due colori diversi? Da dove si sta buttando quel ragazzo? Dietro ogni singola immagine si nascondono storie umane, luoghi speciali, situazioni uniche, microcosmi come tasselli di un enorme e complesso mosaico che è la città di Istanbul. Ogni tassello può essere spostato e accoppiato con un altro, creando una rimando tra le immagini che non è di ordine spazio/temporale, non prevede un inizio e una conclusione della storia, ma si muove verso una narrazione circolare, cinematica, senza fine.
Qual è il filo conduttore che connette la varietà dei temi e delle situazioni presentate nel lavoro?
Raccontare una gigantesca metropoli come Istanbul implica una scelta. Partendo dal presupposto che non si può mappare in modo scientifico l’intera città, abbiamo deciso di rappresentarla e raccontarla secondo quelle che ci sembravano le peculiarità di una città sull’orlo di un cambiamento, in bilico, in divenire, espresse attraverso un linguaggio preciso. Siamo andati alla ricerca e siamo stati trasportati in situazioni simbolo di questo cambiamento, che abbiamo catturato realizzando istantanee senza filtri, dirette, che vogliono comunicare un’atmosfera, un sentimento, un contesto, e che insieme formano una sorta di panorama emotivo. Ci piace pensare che chi guarda queste foto possa fare esperienza della città di Istanbul, possa sentirsi nel luogo, possa trovarsi faccia a faccia con le persone fotografate e porsi delle domande. Ogni fotografia diventa una porta di accesso alla città e, insieme alle altre, traccia percorsi di scoperta lontani dagli scenari turistici, che penetrano in quelle che sono le problematiche socio-politiche in cui versa la nazione.
Güle Güle rappresenta una voce molto diversa rispetto all’immaginario spesso stereotipato di Istanbul e questo è uno dei suoi grandi punti di forza. Le foto sono a volte plastiche, attente al microscopico. Cos’è che ha permesso a questo lavoro di diversificarsi rispetto a quello che siamo abituati a vedere?
La prossimità con i soggetti, l’uso “invadente” del flash, la verticalità delle inquadrature che porta a concentrare la visione su un unico elemento centrale, l’estrema nitidezza che se da un lato evidenzia ciò che è rappresentato, dall’altro mina le certezze di chi osserva, sono tutti elementi linguistici che caratterizzano il nostro stile fotografico e il nostro approccio personale. E’ un po’ come sbattere la verità in faccia. Sta a chi guarda entrare “in sintonia” con le immagini e coglierne la poesia, l’ironia, la drammaticità: la realtà. (cds)