Beral Madra è una curatrice e critica d’arte turca. Ha curato le prime due edizioni della Biennale di Istanbul (1987 e 1989) e cinque padiglioni turchi della Biennale di Venezia. La sua carriera curatoriale include anche diverse mostre collettive internazionali, tra cui Orient Express (Berlino, 1994), Modernities and Memories: Recent Works from the Islamic World (Venezia, 1998), Registering the Distance: Istanbul/Los Angeles (Santa Monica, 2003), Next Wave: Exhibition of 17 Women Artists from Turkey (Berlino, 2009). Assieme a Răzvan Ion, Madra è stata co-curatrice dell’edizione 2018 della Biennale di Bucarest, intitolata Edit Your Future, che si è tenuta dal 17 maggio all’8 luglio del 2018. E attualmente è in corso una mostra a Istanbul curata da lei in una nuova galleria d’arte di Istanbul. L’ho incontrata questa primavera in Romania per discutere di arte e politica contemporanea in Turchia, ma anche della parabola della sua importante carriera come curatrice internazionale.
Maria Orosan-Telea: Come descriverebbe la scena artistica contemporanea turca? Qual è la relazione tra arte e politica?
Beral Madra: In questo momento la situazione politica è davvero complicata. Gli artisti incontrano maggiori difficoltà delle gallerie. Cercano di sensibilizzare il pubblico sui problemi politici e sociali. In Turchia, la maggior parte degli artisti produce opere politiche. Se si guarda al loro corpus di opere, si capisce la loro visione politica. Il loro obiettivo è quello di influenzare il pubblico sprovveduto ad essere più aperto verso le realtà tragiche o difficili della regione. In città anatoliche come Çanakkale (dal 2012), Sinop (dal 2006) e Mardin (dal 2010) vi sono biennali della sostenibilità. Mardin è l’ultima città prima del confine con l’Iraq. Le piccole città invitano gli artisti a fermarsi per alcuni giorni e a interagire con la popolazione locale. Questo aiuta la popolazione a vedere che nel mondo esiste una produzione diversa, che è critica e visiva. E questa produzione visiva mostra una realtà diversa e una visione che fa da contraltare alla post-verità.
L’arte contemporanea turca è molto vivace e dinamica, ma purtroppo non ci sono musei di arte contemporanea, quindi è difficile per il pubblico riuscire a toccare e percepire questa energia. C’è l’Istanbul Modern, che non è un museo ufficiale ma un museo di collezioni che appartiene al settore privato. Ci sono enormi collezioni di proprietà di una quindicina di collezionisti attivi negli ultimi trent’anni. Ma il grande pubblico non può vedere queste opere, quindi gli artisti si stanno organizzando da soli. Reperiscono in proprio le risorse e aprono esposizioni in edifici vuoti. Questo è il loro modo di raggiungere il grande pubblico. Vi sono anche dei comuni che mettono i propri centri culturali a disposizione delle iniziative di artisti.
MOT: Cosa può dirci degli spazi permanenti per gli artisti?
BM: Gli spazi gestiti dagli artisti sono sempre temporanei. Gli affitti sono molto alti ed è quindi difficile per loro avere uno spazio senza alcun budget a sostegno.
MOT: I diritti degli artisti alla libertà di parola sono messi in discussione?
BM: Gli artisti sono indubbiamente un po’ stressati di dover lavorare nella difficile atmosfera politica che si respira oggi in Turchia perché c’è una specie di censura esercitata da autorità che non hanno mai visitato una mostra d’arte contemporanea e non hanno idea del significato di questa produzione. Trasudano ideologie dominanti contro la modernizzazione e il progresso, usando il passato, la tradizione ottomana. Questo è un forte paradosso perché l’Impero ottomano ha invece aperto la porta alla modernizzazione del paese con il movimento di occidentalizzazione. Le autorità attuali pensano che ristabilendo i modelli amministrativi dell’Impero ottomano renderanno un servizio alla religione islamica. Gli artisti possono essere censurati quando espongono ufficialmente opere contrarie e di opposizione. Le gallerie incontrano meno problemi, anche se nemmeno loro sono state al sicuro negli ultimi dieci anni. In alcuni distretti in cui hanno dovuto trasferirsi a causa della gentrificazione non erano le benvenute. Gli abitanti di quei quartieri hanno posto dei limiti alle loro aperture.
Nel 2016 mi è stato chiesto di curare la Quinta Biennale di Çanakkale dedicata al concetto di “patria”. Un artista contemporaneo mi ha denunciata e alcuni membri dei partiti di governo mi hanno attaccata sostenendo che stavo difendendo un’ideologia diversa ed ero contraria al governo. Hanno attaccato persino l’amministrazione comunale di Çanakkale retta dal partito di opposizione CHP che stava sostenendo la biennale. A causa di questo conflitto politico, gli organizzatori hanno esitato a invitare venti artisti di diversi paesi, asserendo che il conflitto politico in città era troppo forte perché la biennale fosse sicura. Ma nel 2017 la Osnabrück Kunsthalle e la Biennale di Salonicco si sono dimostrate solidali e hanno invitato molti artisti della Quinta Biennale di Çanakkale.
MOT: Lei ha detto che molti artisti turchi hanno un approccio critico nei confronti delle questioni politiche e sociali. Ma quali sono le limitazioni, non solo in Turchia ma anche nella regione? Fino a che punto possono spingersi?
BM: In genere è difficile per un artista occuparsi di questioni che attengono alla religione e al sesso o usare simboli nazionali. Ad esempio, un artista potrebbe avere problemi se utilizza la bandiera in modo critico. Ma va detto che gli artisti in Turchia sono ben allenati a cercare metafore che riflettano il loro approccio critico. In molti paesi islamici gli artisti non possono mostrare l’immagine di un corpo nudo né in spazi privati né in quelli ufficiali. Nei paesi arabi più conservatori le opere esposte sono astratte o decorative.
MOT: Lei èstata la curatrice della prima e della seconda Biennale di Istanbul alla fine degli anni Ottanta. Che evoluzione ha avuto la biennale dai suoi esordi ad oggi?
BM: Sono passati così tanti anni che è difficile ricordare come fosse allora la scena artistica di Istanbul. In questi trent’anni vi è stato uno sviluppo incredibile. Negli anni Ottanta in Turchia c’era un’importante produzione artistica. Ci sono state generazioni di artisti attivi da quando l’Impero ottomano fondò l’Accademia di Belle Arti alla fine del diciannovesimo secolo. A partire dal 1923, anno di fondazione della Repubblica, l’arte è stata uno strumento di modernizzazione con il patrocinio dello stato. La grande trasformazione è iniziata a metà degli anni Ottanta, quando il capitalismo di stato si tramutò in capitalismo liberale e iniziò la trasformazione postmodernista. Per lo sviluppo delle belle arti il settore delle imprese divenne più importante dello stato. Voleva avere una qualche visibilità mentre si ritagliava un suo posto nel capitalismo globale. E la biennale fu uno degli strumenti a cui si affidò. Si erano resi conto che organizzare una mostra internazionale sul modello della Biennale di Venezia o della Biennale di San Paolo poteva essere funzionale al loro obiettivo.
La Turchia ha conosciuto una situazione politica molto difficile negli anni Ottanta quando la Fondazione di Istanbul per le arti e la cultura (IKSV) decise di organizzare la biennale; all’epoca il paese non era ancora una vera democrazia. Gli artisti internazionali importanti non erano molto disposti a venire a Istanbul e contribuire a dare visibilità alla Turchia. Il settore delle imprese era però estremamente determinato a investire nell’arte e nella cultura. Venni prima invitata a far parte del consiglio di amministrazione per sviluppare questo modello espositivo internazionale.
Mentre stavo lavorando alla prima edizione, il consiglio mi chiese di esserne anche la coordinatrice. A quei tempi, il titolo “curatore” non era usato in Turchia. Harald Szeemann è stato il primo a usarlo in Europa. Pertanto, per la prima (1987) e la seconda biennale (1989) sono stata descritta come la coordinatrice anche se di fatto ne ero la curatrice. Avevo dei consulenti privati; ad esempio, mio marito, Teoman Madra, un artista e fotografo aderente al movimento Fluxus che si occupava di fotografia astratta, aveva legami con la scena artistica italiana e francese. Ho sfruttato quelle conoscenze per invitare artisti come Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio e François Morellet a prendere parte alla prima edizione, e Daniel Buren, Jannis Kounellis, Richard Long e Sol LeWitt alla seconda. Questi artisti trovavano attraente il patrimonio storico di Istanbul. Quando sono arrivati, sono rimasti davvero entusiasti degli spazi. Ad esempio, nell’edificio ottomano, vicino alla Süleymaniye, abbiamo esposto Buren, Long e LeWitt. Mi sono concentrata sugli artisti più famosi di allora. Se non voleva essere considerata una biennale del “terzo mondo”, la Biennale di Istanbul doveva puntare molto in alto, al meglio.
Per la prima e la seconda edizione, ho dovuto contattare molte persone e molte istituzioni in Europa, così ho sviluppato una rete. In seguito gli italiani mi hanno invitata a Bari per la grande Fiera d’arte del 1989 che aveva una sezione speciale per i paesi del Mediterraneo. Mi hanno chiesto di portare un gruppo di artisti turchi. Quello fu il mio primo progetto come curatrice indipendente.
MOT: Suppongo che la collaborazione con la Biennale di Venezia sia iniziata in quell’occasione.
BM: Sì, ho incontrato là i commissari e i direttori della Biennale di Venezia. Hanno visto la mostra da me curata e mi hanno chiesto perché la Turchia non fosse presente alla Biennale di Venezia. Per le edizioni successive, sono stata invitata dai curatori della Biennale di Venezia a rappresentare la Turchia. Ho dovuto trovare i fondi nel mio paese. Il ministro degli affari esteri mi ha appoggiata moltissimo, ma il sostegno finanziario era ancora molto limitato. Non ho potuto partecipare a ogni edizione perché non sempre disponevo del budget richiesto o perché, non avendo la Turchia un padiglione permanente, non ero riuscita a trovare uno spazio. Così, fino al 2005, ho presentato artisti turchi in cinque mostre. Le prime quattro erano mostre collettive per dare a molti di loro l’opportunità di essere visti al di fuori del paese. Ad esempio, Kemal Önsoy, Mithat Şen, Serhat Kiraz, Erdağ Aksel, Gül Ilgaz, Neriman Polat, Nuri Bilge Ceylan, Ergin Çavuşoğlu e Nazif Topçuoğlu hanno esposto quadri, installazioni, fotografie e video. L’ultima mostra è stata una personale di Hussein Chalayan.
MOT: Cosa ne pensa dell’idea di rappresentanza nazionale alla Biennale di Venezia? Ha ancora un senso?
BM: Nel 1992-93, il curatore Achille Bonito Oliva ha trasformato la tradizione del padiglione nazionale aprendolo alla partecipazione globale. Ha chiesto ai padiglioni di invitare un paese che non avesse visibilità. Inoltre, nella mostra all’Arsenale c’erano numerosi artisti provenienti da molti paesi. Il nazionalismo è un’ideologia pericolosa, ora. È mescolato con il razzismo ed è un’ideologia conservatrice e retrograda che sta causando guerre e massacri. Le persone dovrebbero sempre riflettere su questa cosa, quando sostengono che il nazionalismo è qualcosa di positivo. In passato, i padiglioni nazionali non erano così coinvolti ai massimi livelli del dibattito intellettuale e della teoria critica. A partire dagli anni Novanta, la situazione è cambiata. I padiglioni invitano anche artisti immigrati e questo è uno sviluppo molto positivo. Alcuni curatori stanno usando appieno le proprie idee a vantaggio della riconciliazione globale.
Devo tuttavia aggiungere che tutte le biennali sono collegate al mercato dell’arte. Esistono sempre partnership e collaborazioni con i protagonisti del mercato, collezionisti, gallerie e mercanti. Non possono essere separate. Ma un curatore deve presentare e difendere le proprie idee per rimanere indipendente e sottrarsi alle manipolazioni del mercato dell’arte.
MOT: Ci parli della sua esperienza di co-curatrice dell’ottava edizione della Biennale di Bucarest.
BM: Essere coinvolta nell’ottava Biennale di Bucarest e poter avere una visione approfondita della scena artistica di questa città è stata per me una grande opportunità. Sono sempre interessata a creare relazioni di adiacenza nell’arte contemporanea. Forse con la mia rete ho dato un contribuito, ma quel che è certo è che la scena artistica di Bucarest e i fondatori della biennale, con la loro straordinaria iniziativa collaborativa e con la loro energia, hanno contribuito alla mia conoscenza ed esperienza. La Biennale di Bucarest è un’iniziativa indipendente di un gruppo di artisti ed esperti d’arte basata sulla rivista politica e culturale Pavilion, fondata dal mio co-curatore Răzvan Ion e da Eugen Rădescu. La biennale è stata allestita in tre gallerie – Mobius Gallery, MORA (Opportunità per gli artisti rumeni) e Atelier (Spazio d’arte contemporanea) – ed è stata sponsorizzata dalla Transylvania Bank e sostenuta da Partners in Kind. Il processo di creazione di contenuti significativi e di definizione della forma della biennale ha quindi visto la partecipazione e il coinvolgimento di un gruppo molto folto di persone. Il problema più arduo è stato il nostro concetto e il nostro modo di operare. Abbiamo invitato gli artisti a contribuire con un’immagine che riprendesse il concetto Edit Your Future, ovvero Cambia il tuo futuro. Ogni immagine è stata poi stampata come poster di 50 x 70 cm e presentata al pubblico affinché si creasse un proprio catalogo. La distribuzione gratuita dei poster rimandava ai lavori di Felix Gonzalez-Torres, creati per la prima volta nel 1989, ed era una risposta al discorso critico LGBT in alcuni paesi dell’UE.
MOT: Mi racconti qualcosa di più sul tema di questa edizione.
BM: L’aspetto principale della Biennale di Bucarest è il suo essere un’iniziativa della società civile completamente indipendente, che mantiene consapevolmente le distanze dal calcolo dei poteri del mercato della scena artistica globale. Un altro punto di interesse era rappresentato anche dalla sua posizione geo-politica e culturale e dai legami con le culture storiche e contemporanee del Mar Nero, del Mediterraneo e del Medio Oriente.
Quando si decide di fare una biennale nell’era della post-verità – ora l’ideologia dominante all’interno della crisi globale in corso – non c’è dubbio che artisti e curatori credano che la produzione artistica contemporanea e la sua esposizione siano uno dei mezzi più decisivi per affrontare vari problemi socio-politici e culturali, e siano anche il modo più impegnativo di comunicare con la società dello spettacolo. Nell’era della post-verità la verità non è solo fabbricata in modo irresponsabile, le fonti stesse delle notizie sono manipolate dai poteri politici ed economici per creare un mondo di informazioni confuse in cui l’inganno, le false storie e le dicerie si diffondono a una velocità allarmante. Di conseguenza, i curatori e gli artisti credono che l’arte contemporanea, con la sua qualità all’insegna dell’innovazione e della ricerca della verità, abbia il potere di entrare in questo tumulto post-verità.
Mettendo da parte i vantaggi economici e turistici di una biennale, dovremmo concentrarci sul significato provocatorio di “esposizione”, ovvero di sottoporre all’ispezione o all’esame del pubblico il pensiero critico attraverso le opere. L’obiettivo principale delle mostre è quello di sfidare l’opinione pubblica, per mezzo di una produzione verbale e visiva tangibile, e creare una complessa agorà per indurre il pubblico a partecipare ai dibattiti attuali. In un momento di polarizzazione sociale, sconvolgimento politico e catastrofe ecologica, il ruolo dell’artista e del curatore di una biennale è quello di rispondere attraverso le opere selezionate e di stimolare nuove possibilità per il pensiero critico. Il concetto della biennale, Edit Your Future, si basa principalmente su queste idee; volevamo che il pubblico fosse consapevole di avere il potere di resistere a questa ideologia post-verità e di cercare la verità.
Siamo inoltre convinti che il potere della mostra stia nell’atteggiamento collaborativo e collettivo e nella supervisione degli artisti, dei curatori e degli organizzatori; anche se in condizioni di lavoro tese possono esservi controversie o conflitti plausibili tra di loro. Se attraverso le opere della biennale il pubblico ritrova, rimargina e riequilibra la sua sensibilità, l’unità concettuale della Biennale di Bucarest assicura un’influenza di lunga durata della mostra nel subconscio della gente.
Maria Orosan-Telea,Timișoara, Romania, 31 maggio 2018
Traduzione dall’inglese di Isotta Paolucci
Foto di copertina ©Vahit Tuna _ La foto di copertina e le altre immagini sono prese da www.beralmadra.net per gentile concessione di Beral Madra
Quest’articolo è stato pubblicato originariamente sulla rivista online ARTMargins