Lo scorso 14 luglio si è spenta una degli ultimi giganti letterari del Novecento turco: Adalet Ağaoğlu. Scrittrice e intellettuale tra le più significative nel panorama culturale del paese, ha saputo raccontare l’epopea della moderna nazione turca con ironico acume e lucido distacco, ma anche con appassionato impegno e fervore intellettuale, denunciando i traumi storici, le contraddizioni socio-culturali, le disillusioni politiche che hanno segnato il percorso evolutivo di chi come lei è “figlia” della Repubblica kemalista. Conferendo un’attenzione per molti aspetti inedita alla dimensione soggettiva dei suoi personaggi e alle tematiche del rapporto tra individuo e società, tra intellettuale e potere, è riuscita a guadagnarsi una diversa prospettiva critica sul progetto di edificazione nazionale kemalista, ponendone in luce alcune delle criticità più intime: prima fra tutte il controverso asserimento del sé femminile. La difficile, perchè sotto molti aspetti pionieristica, ricerca di uno spazio narrativo dove poter esprimere tale soggettività repressa è ciò che motiva, sin dagli esordi, la penna di Ağaoğlu. La sua narrativa si contraddistingue per la duplice valenza avanguardistica sia estetico-artistica che socioculturale. I suoi romanzi costituiscono infatti un preliminare necessario sia al radicale rinnovamento che a partire dal 1980 ha interessato il romanzo turco in generale, sia all’emergere, sempre negli stessi anni, di una narrativa dai contenuti esplicitamente femministi.
Adalet Ağaoğlu nasce nel 1929 a Nallıhan, una piccola cittadina di provincia non lontana dalla capitale. Nel 1938 si trasferisce con la famiglia ad Ankara, dove completa la sua istruzione fino alla laurea in lingua e letteratura francese conseguita nel 1950. Nel frattempo inizia a collaborare con il quotidiano Ulus come critica teatrale e pubblica la sua prima poesia su una rivista letteraria. Terminati gli studi universitari, inizia a collaborare con Radio Ankara dove è autrice di diverse sceneggiature e programmi. Nel 1953 fonda insieme ad alcuni colleghi l’Ankara Meydan Sahnesi, il primo teatro della capitale nato su iniziativa privata dove viene rappresentata la sua prima opera teatrale intitolata Bir Piyes Yazalım (Scriviamo una pièce). Dal 1964 passa a lavorare come sceneggiatrice e autrice di programmi radiofonici alla TRT, la radiotelevisione di Stato. Già testimone della parabola discendente del Partito Democratico e del golpe militare che nel 1960 ne determinò la fine, nel nuovo quadro politico garantito dalla Costituzione del 1961 osserva i repentini cambiamenti che attraversano il paese. Forze che si credevano sopite tornano in campo: la destra radicale, il movimento islamista iniziano ad acquisire risonanza. Siamo negli anni della Guerra Fredda e la Turchia è da sempre un anello essenziale nella strategia atlantica di contenimento del “pericolo rosso”. Adesso però si affaccia sulla scena politica una sinistra socialista che critica l’orientamento del paese tanto sul piano locale quanto internazionale. Il movimento attira consensi tra studenti, dirigenti sindacali, scrittori e intellettuali che iniziano a vedere nel sogno socialista una via per riparare alle contraddizioni sociali della modernizzazione kemalista. Intanto la destra radicale e islamista, divenute preziose alleate delle alte gerarchie militari, danno il via a una virulenta campagna per denunciare la presenza di “comunisti” nelle università e nei media. Nei quadri dirigenti della Repubblica si fa sempre più strada l’idea che la costituzione liberale sia un lusso che la Turchia non può permettersi. Nel 1970, Adalet Ağaoğlu si dimette dalla TRT, denunciando il controllo censorio e le forti limitazioni all’autonomia espressiva dei media. Da quel momento si dedica anima e corpo alla letteratura.
Nel 1973 pubblica quello che è unanimemente considerato il suo romanzo più importante oltre che il suo esordio in narrativa: Ölmeye Yatmak (Coricarsi e Morire, L’Asino d’Oro 2017, trad. it. di Fulvio Bertuccelli). L’opera, dai forti tratti autobiografici, costituisce la prima lettura critica della modernizzazione kemalista elaborata da una prospettiva di genere. Il romanzo realizza un ricco affresco della prima generazione repubblicana, analizzandone speranze, dissidi e dubbi interiori, attraverso uno sguardo privilegiato sulle relazioni tra i sessi. Vi viene ricostruito il percorso formativo della giovane Aysel, dall’infanzia trascorsa in una piccola provincia dell’Anatolia, al trasferimento nella capitale. Qui sfidando i pregiudizi sociali e le costrizioni familiari, che la vorrebbero confinata al ruolo di moglie e madre devota, riesce a laurearsi, a diventare un’acclamata studiosa e insieme la sposa innamorata di un giovane collega che condivide e rispetta il suo desiderio di contribuire attraverso la sua emancipazione al progresso della nazione. Educata agli ideali moderni di progresso e civiltà, Aysel è l’incarnazione del nuovo modello di donna e cittadina promosso da Mustafa Kemal Atatürk, il padre della nazione. Ma quest’idillio apparente viene irrimediabilmente rotto quando nella sua vita irrompe Engin, uno dei suoi studenti, con cui intreccia una relazione. Con l’adulterio Aysel riscopre il proprio corpo e la propria sessualità ma questa riscoperta la getta in una crisi profonda che la spinge a meditare il suicidio. Nel conflitto interiore che vive la giovane, il bisogno di affermare la sua ritrovata femminilità si scontra infatti con il modello ideale su cui ha forgiato la sua intera esistenza ma che in realtà non le appartiene perché elaborato al di fuori del proprio sé ed impostole dall’alto. D’altronde la stessa emancipazione per cui ha lottato strenuamente trova la sua intima giustificazione non tanto nella sua realizzazione personale quanto nella causa nazionale, in nome della quale Aysel realizza di aver dovuto rinunciare alla propria individualità. La rilevanza del testo non si esaurisce nella critica alle politiche emancipatorie del kemalismo e al cosiddetto “femminismo di Stato”, ma si evince anche dalla formulazione di un discorso specifico incentrato sulla riscoperta della sessualità come momento di presa di coscienza fondamentale per il soggetto femminile.
Ölmeye Yatmak è il primo volume della trilogia Dar Zamanlar (Tempi stretti) ed è seguito nel 1979 da Bir Düğün Gecesi (Notte di nozze, L’asino d’oro, 2018, trad. it. di Tina Maraucci e Fulvio Bertuccelli). La critica turca è solita considerarlo un esempio del cosiddetto “romanzo del 12 marzo”, ossia della tipologia di narrativa “socialista” dominante negli anni ’70, con cui condivide il soggetto principale: il memorandum militare del 1971 e la violenta repressione della gioventù rivoluzionaria. Tuttavia l’originalità della struttura e della tecnica narrativa impiegata, ne fanno un testo quasi unico. Concepito come un’opera teatrale, il romanzo ha la sua scena principale nel salone per cerimonie dove sta avendo luogo il matrimonio di Ayşen, la nipote di Aysel. Su questo scenario l’autrice colloca una ricca galleria di personaggi ciascuno dei quali è rappresentativo di una categoria sociale ben specifica, così da comporre un grande e accurato affresco della società turca degli anni ’70. L’incursione nel mondo interiore dei suoi personaggi permette ad Ağaoğlu di affrontare questioni come l’emarginazione, il disagio psicologico, la profonda crisi culturale e d’identità che vivono in particolare i tre protagonisti del romanzo – Ömer, Tezel e Ayşen – e allo stesso tempo di criticare, attraverso le loro singole esperienze individuali il movimento socialista turco nella sua complessità, ponendone in luce gli errori, le miopie e le problematiche interne.
Nel 1989 viene pubblicato il volume conclusivo della trilogia Hayır (No), che racconta in una veste postmodernista, i difficili anni che seguono il golpe militare del 1980, tra i periodi più bui della storia repubblicana degli ultimi quarant’anni. Nei panni di protagonista ritroviamo Aysel, in procinto di ritirare un riconoscimento alla sua attività di studiosa. È questa la cornice che le offre il pretesto per trarre un nuovo bilancio complessivo della sua esistenza e fare i conti con il passato nelle sue diverse sfaccettature, con le sue convinzioni politiche e i suoi legami affettivi. La centralità iconica di Aysel è qui chiamata a rappresentare la condizione dell’intellettuale, oggetto negli anni ’80 di una violenta destituzione dal proprio ruolo politico e sociale, e insieme della donna turca, alle prese con la contestata ridefinizione del proprio sé. In questo senso Hayır non è solo il grido di chi si oppone al potere maschile di un regime autoritario, ma anche una dolorosa riflessione sulle cause che hanno aperto un insanabile divario tra le élite progressiste e le masse subalterne del paese.
Tra gli altri suoi titoli va ricordato Fikrimin İnce Gülü (1976, La rosa sottile del mio pensiero) che sarà ritirato dagli scaffali e costerà alla scrittrice un processo con l’accusa di vilipendio delle forze armate. Nel contesto di militarizzazione e ristrutturazione neoliberista degli anni ’80, mentre la Turchia è segnata dal conflitto con la guerriglia del PKK, Adalet Ağaoğlu è tra i fondatori della İnsan Hakları Derneği (Associazione per i diritti umani) da cui successivamente si dimetterà. Le motivazioni saranno fornite solo nel 2005 in una controversa lettera pubblicata a mezzo stampa, in cui si criticava la linea dell’associazione, eccessivamente improntata su una difesa etnica dei diritti umani. Malgrado le originarie intenzioni dell’autrice, la lettera sarà strumentalizzata dai media mainstream nella propaganda contro il PKK. Ciononostante Adalet Ağaoğlu continuerà a schierarsi a fianco degli esponenti della società civile come Hrant Dink. La sua ultima raccolta di racconti pubblicata nel 2018 con il titolo Düşme Korkusu (La paura di cadere) si accompagna all’assegnazione del premio alla narrativa Erdal Öz e al conferimento del dottorato ad honorem dall’Università Boğaziçi.
Durante la sua lunga attività di scrittrice, che la conferma come una delle penne più brillanti della letteratura turca, ha costantemente centrato la sua riflessione sul rapporto tra individuo, società e potere lasciandosi guidare dalla psicologia dei suoi personaggi, dalle loro fragilità ma anche dalla loro straordinaria capacità di resilienza. D’altronde il barlume di ottimismo che malgrado tutto trapela nei “tempi stretti” di Adalet Ağaoğlu trae origine non tanto dallo scenario sociopolitico, quanto dai nuovi margini di crescita apertisi per l’individuo, a cominciare dall’inedita possibilità di riappropriarsi della propria soggettività femminile, negata e contestata, per veder legittimata, almeno sul piano letterario, la propria individualità di donna e scrittrice. Se ne va l’autrice di opere certamente distanti dalle logiche del mercato ma che si rivelano una preziosa eredità, una valida guida per coloro che vogliono scoprire, comprendere ed esplorare la storia tragicomica, e a volte grottesca, della Turchia contemporanea. Voce sarcastica, capace di costruire una spietata critica del potere costituito senza tuttavia incappare negli stereotipi e nelle ingenue idealizzazioni dei romanzi d’ambientazione politica, con lei il paese perde un’attenta interprete del suo passato, capace di snidare le ragioni che continuano ad affannarne il presente. (Tina Maraucci)