Un racconto di Ercan y Yılmaz
RAGAZZA
Adesso chi mi fermerà? Mi lascerei convincere dal minimo suono. Qualcuno mi dica “ferma”! In mano il fucile da caccia di mio padre, il resto silenzio. Infinito. Un tuono dal cielo, uno scricchiolio della porta potrebbe impedirmi di premere il grilletto. Perché nessuno mi dice “ferma”! il freddo della canna che ho poggiato sotto al mento non mi rende felice, ma ormai l’ho poggiata. Il dito sul grilletto. Se scendesse il mio cervello si spalmerebbe sul soffitto. Il rosso del mio sangue sporcherebbe il bianco. Non è neppure una settimana che mio padre ha ridato la calce sul soffitto. La traccia lasciata sul soffitto dalla figlia si potrà mai mondare con qualche chilo di calce? Cos’è che mi ha condotto a questo punto? Non lo so!
Perché una persona si suicida?
Posso davvero uccidermi? Non lo so!
Come sono arrivata a questo punto? Il fucile da caccia. Io. Il suicidio. Mia madre. Cinque.
Da dove è saltato fuori il cinque. Un indizio. Conto fino a cinque e premo il grilletto.
Uno. Perché i cani oggi non abbaiano? Mi insospettisco. I polli non fanno un verso, neppure i galli cantano. Ora non ho una scusa per andare a controllare l’aia. Nel pollaio abbiamo dodici polli, quattro galli di cui uno da combattimento, sei anatre e otto oche. Quanto sono silenziosi tutti oggi! È un’ ingiustizia ecco; se i nostri si mettessero a litigare con i galli del vicino avrei una scusa per andarli a separare. No! Sembra che tutto e tutti si siano accordati. Non un suono. Non un tac. Non un ciak. Non un crac. Non un ba! Non un chi! Non un glu!
Due. Che ore si sono fatte adesso? Da quanto tempo sento sul mento l’acciaio freddo? Tempo, tempo, tempo… Ormai non ho più niente a che fare con il tempo. I momenti vissuti con la paura di fare tardi. Ad esempio non servirà più ricordarmi l’ora per mungere, l’ora per pulire la stalla. Con un colpo cancellerò il tempo. Senza più provare dolori mestruali né fitte al petto. Sto per cancellare il tempo. Lo sento. Questo fucile è per me la macchina che fermerà il tempo. Quanti giorni mancano al ciclo? Il mese scorso è stato il venticinque. Allora questo mese deve essere entro il venti. Oggi è il quattordici del mese. Ho capito, neanche questo può salvarmi da me. Ora penso, magari prima di chiudermi nella stanza avessi messo una pentola sul fuoco. Almeno sarei dovuta andare a controllare.
Tre. Al muro una fotografia di mio padre, una cascata sullo sfondo. Non capisco, perché non una montagna? Perché come sfondo si utilizza la cascata che non ci appartiene? A destra la fotografia di mio fratello maggiore durante il servizio militare… Mi ricordo i giorni che faceva il militare. Piangeva sempre dicendo “voglio scappare”. Era stufo di prendere botte, di correre, di pulire i gabinetti; diceva migliaia di volte, scapperò il prima possibile e chiunque gli fosse venuto in mente in quel momento, gli bestemmiava contro. Adesso invece mi stava davanti con due fucili dalla canna lunga che non so cosa fossero, le braccia piegate per mostrare i bicipiti gonfi, l’uniforme da militare color kaki sporco. Non si vergognasse salterebbe dalla fotografia per dire, “in ogni spanna di terra in cui sventoli la bandiera sono pronto al mio dovere.” Gli sguardi duri e affettati come non avesse mai pensato alla fuga straripavano dalla cornice. A sinistra di mio padre la fotografia dell’altro mio fratello… L’unico della famiglia ad avere studiato, insegnante… La fotografia del diploma scattata e inviata con gioia aveva scatenato una crisi in famiglia. Vedendo la fotografia con il tocco scattata con la barba lunga su sfondo azzurro, mio padre aveva avuto una crisi di nervi. Neppure mia madre era riuscita a calmarlo. Eppure mia madre era la quiete di mio padre. “Mio figlio è diventato comunista, non appenderò quella fotografia. Fa scappare gli angeli da casa”, si era lamentato con gli amici. Mio fratello sentendo del pandemonio scoppiato in casa per la barba lunga, se l’era tagliata e aveva scattato questa nuova fotografia. Avevano fatto un po’ alla svelta, era chiaro. Il taglio della lametta sulla guancia sanguinava ancora. I tre soldati di casa nella cornice! Ma dove siete! Salvatemi!
Quattro. Confido nell’aiuto dei due tappeti appesi al muro imbiancato. Ho agganciato la mia tristezza ai toni pastello e velluto. I nodi non se la sono presa. Sul tappeto appeso alla mia destra è disegnata la scena in cui un toro abilmente trafitto dal matador spagnolo sta cadendo. Tre delle lance sono infilzate nella zampa posteriore sinistra. Un’altra dondola nella parte del collo. Al centro del tappeto alla mia sinistra invece è raffigurato il momento della circumambulazione attorno alla Kaba di milioni di persone con indosso la tunica. Attorno a questo disegno sono rappresentate altre figure piccole piccole. La raffigurazione della lapidazione di Satana, la Pietra Nera e tanti, tanti altri disegni. In entrambi i tappeti c’è una folla da finimondo. Nel primo una folla in delirio che attende il crollo a terra del toro, nell’altra una folla confusa in cui le persone si schiacciano l’una con l’altra mentre cercano di lapidare il diavolo con pietre in mano. “Hey, c’è nessuno che mi sente laggiù?”
Quattro e mezzo. Perché non c’è nessuno? Perché non si muove foglia? Perché il figlio della vicina non mi guarda dalla finestra? Eppure il più delle volte si siede a osservarmi. Una volta gli ho pure mostrato la mia spalla nuda. E lui mi ha soffiato il bacio posato sulle quattro dita. Ah! Adesso se fossi di fronte a questa finestra ti offrirei tutta la mia nudità, non la dispersione del mio cervello.
“Quattro virgola sessanta…” Questo l’ho detto a alta voce. Ho pensato ad alta voce “Devo scrivere”. Sì, devo scrivere qualcosa. Perché dopo ogni suicidio si lascia una lettera. Anche se alcune non scritte. Devo scrivere. Altrimenti mia madre e mio padre saranno accusati. Inventeranno storie di ogni tipo. “Si è suicidata per non essere data in matrimonio contro la sua volontà”, “La ragazza era incinta”, “Le botte prese dal padre l’hanno sfiancata” “Chissà forse è suo padre che l’ha uccisa e poi l’ha fatto sembrare un suicidio” e cos’altro ancora… per raggiungere la penna che è sul tavolo non credo di poter posare il fucile. Bisognerà che la prenda così. Se mi allungassi riuscirei a prenderla? Non so. Bisognerà che ci provi. Non so perché, non riesco a lasciare il grilletto. Mi alzerò in piedi con il fucile da caccia di mio padre tenuto stretto. Prenderò la penna e qualche carta da lettera senza staccare il dito dal grilletto e tornerò. Poi scriverò la mia storia da dove ho cominciato a raccontare. Non sapendo le ragioni che mi hanno portato a questo punto scriverò ciò che mi passa per la testa in quel momento. Sempre sul tavolo prenderò anche il romanzo che ho preso tra i libri di mio fratello e che mi attrae nonostante abbia letto appena qualche pagina. Dopo aver finito la lettera con la scusa di leggere il romanzo continuerò a vivere.
Quattro virgola settanta. Evviva! Finalmente si sente un rumore. Il suono dei passi di mia madre; deve aver camminato nel fango con le scarpe di gomma. Si avvicina con uno scalpiccio appiccicoso.
Quattro virgola ottanta. Dai mamma, vieni!
Quattro virgola novanta.
Mi è rimasto un decimo di secondo!
“Figlia mia!”
Cinque.
“…Ferma!”
Taaak!
FUCILE DA CACCIA
Lo so! Ora tutti e tutto mi accuseranno. Cercherò di discolparmi. Padre che mi ha pulito con lo scovolo, di ritorno da una battuta da caccia, mi ha lasciato come sempre in un posto che i figli potevano facilmente raggiungere. Non è molto comodo restare dentro una guaina nera, appeso a un chiodo malfermo. Non potete saperlo. Sono carico. Sconveniente forse; ma che si trovasse un colpo in canna è per ragioni di sicurezza, che non si sa mai. Il giorno prima mi erano stati fatti sputare proiettili per togliere l’anima a due conigli e tre corvi. Non ho dubbi che i corvi siano stati uccisi per piacere. A premere il grilletto e piazzare i corvi nel centro del mirino è stato sempre Padre. Per piacere ho detto, perché la carne di quei poveri animali non si mangia. Sì, poveri animali… Cosa? Di che vi stupite? Anche io sono dotato di compassione. Non ci crederete lo so; ma mi rattristo. In fin dei conti i “Principi Morali Universali” sono validi anche nell’Universo delle Armi. Io eseguo soltanto il mio compito. Quando scatta il grilletto scoppio. Come posso spiegare! Ad esempio voi avete gli avvocati esecutivi, che tolgono il televisore di mano a un bambino che sta guardando i cartoni animati… Anche loro fanno il proprio dovere. Alcuni di noi tolgono i sogni, altri la vita. Qual è più importante?
Quel giorno ho capito subito che ad afferrarmi non era la mano di Padre. Perché mentre cercava di tirarmi giù ha tentennato. E poi non sono così pesante. Mi piace, con l’apertura della cerniera, il mio lato argentato brillante sotto la luce che riempie la custodia. Quando ho visto la ragazzina di casa quindicenne che per un attimo si è schermata gli occhi a causa di quell’abbaglio con un gesto che ricordava il comico saluto di un soldato, ho capito che non mi ero sbagliato. Mi ricordo che ha preso la mira qualche volta, sono stato puntato sul lampadario, il portapenne, persino sul fiore nel barattolo di conserva. Poi mi ha posizionato sotto il mento. Ho sentito la dolce morbidezza del mento della ragazza. Io sono fatto di acciaio, ho una natura fredda e dura. Mi sono un po’ come ammorbidito. La pelle di una ragazzina può ammorbidire persino un crudele. Ma non è durato a lungo. Per un’arma stavo vivendo un momento che può considerarsi il culmine. Stavo provando una dietro l’altra emozioni umane come eccitazione, paura, gioia, tristezza, orgoglio.
Il grilletto è scattato. Poi è stato chiamato suicidio.
IL TORO SUL TAPPETO AL MURO
Quando mi ha guardato negli occhi bisognava che capisse; quelli che lottano con tutte le loro forze per vivere sono quelli che stanno per morire. Le lance del matador, spagnolo come non ci piove, sotto le orecchie, il posto prediletto sul mio dorso. Tengo a precisare che delle quattro lance, le tre infilzate nella mia zampa posteriore sinistra, e quella sul collo sono solo la parte visibile. Mentre io lottavo fino all’ultimo sospiro la Ragazza doveva capire quanto è bella la vita. Prima di giungere a questo punto, stanco di ripetere la stessa vita ogni giorno, vedevo la morte come una salvezza. Ma quando Israele, che?, credevate prendesse solo l’anima delle persone?, ha abbracciato la morte e ha preso parte tra gli spettatori, ecco, allora ho capito quanto amassi la vita. La stalla, la mangiatoia, l’avena, le mucche, i vitellini minuscoli. Quello che a breve sarebbe morto ha cominciato ad acquisire un nuovo significato per me.
Quando la Ragazza contando quattro virgola sessanta ha pensato alla lettera, ho avuto speranza. Chi era che aveva lasciato la penna così lontano? Credo che anche se non per situazioni come questa ognuno dovrebbe avere una penna in tasca. E poi il romanzo di cui voleva conoscere la fine, perché non era come sempre nel luogo che avrebbe potuto raggiungere? Perché le erano vicine le cose che non doveva raggiungere?
Se la mia ultima caduta non fosse stata raffigurata su questo tappeto sarei riuscito a restare immortale? Non credo. A volte mi rattristo per l’immortalità del dolore provato a causa delle lance dalla punta acuminata infilzate in qualche centimetro di carne. Non è che non succeda pure che gridi: “Dai, esecutore, uccidimi!!” “Fa’ la tua mossa migliore!” “Infilamela nel cuore la tua spada traditrice!” Ogni volta resisto per le lacrime di un bambino su cui mi fisso in mezzo ai gesti di “finiscilo” della folla nell’arena con i pollici alzati. Ho ben sentito l’urlo della Ragazza che diceva, “C’è nessuno che mi sente laggiù?” ma non ho potuto fare niente. Bisognava che prolungassi il dolore provato per l’immortalità. Stavo resistendo. Inoltre io non ho neppure una vita a cui porre fine.
CANDIDATO HAJI SUL TAPPETO AL MURO
Pace e bene. Stavo tirando pietre al diavolo. Ho sentito il grido della Ragazza “Hey, c’è nessuno laggiù?”. Ho guardato nella fossa. All’inizio pensavo fosse il diavolo. Stava chiamando me? Mi sono spaventato. Ma era la voce di una ragazza. Sia, tutti i diavoli si mutano in belle cose. Non sono certo tipi da usare la mia di voce per tentare le persone. E quando vediamo in sogno una donna non ci facciamo le abluzioni complete dicendo che è stata la risata del diavolo? Poi ho capito che la voce veniva da un’altra parte. Ma in quel momento non vedevo niente. Anche se le mie orecchie udivano, avrei fatto il sordo. Una volta tornato dalla terra santa da haji avrei fatto baciare a tutti i miei palmi. Acquisito rispetto avrei portato profitto anche alla mia vita professionale. Appendere sul posto di lavoro la scritta a grandi lettere realizzata con cura su un cartone bianco “Sono In Pellegrinaggio Alla Mecca. Pregate Per Me, Se Dio Vorrà Tornerò Da Haji”, è stata una mossa intelligente. Così ho fatto intendere a tutti che sono un candidato haji. A coloro che mi attendono con impazienza distribuirò spazzolini in legno, muschio, rosari, acqua benedetta di Zamzam e datteri. Aggiungendo acqua di pozzo all’acqua di Zamzam basterà per tutti. I datteri dovranno bastare per tutti… e loro poi mi lasceranno grandi beni. Meglio una gallina domani che l’uovo oggi… Dopo essermi fatto crescere la barba e aver accorciato i baffi il mio prestigio aumenterà. La sovranità del pelo, ecco…
Devo confessare che durante il linciaggio alcune delle mie pietre hanno mirato alla testa del candidato haji che mi stava davanti. Anche se dentro di me ho formulato qualche frase di insulto non ne ho pronunciata nessuna. Si sono spente come colpi di tosse scoppiati dentro. Bisognava che lanciassi le ultime pietre rimastemi in mano e proseguissi da dove ero rimasto. Perciò non ho badato troppo alla ragazza. Nella nostra religione suicidarsi è un grave peccato. Voglio sottolineare che rimprovero molto il suicidio della ragazza. L’anima data da Dio soltanto Dio può riprenderla. A questo proposito in un verso del Corano è ordinato: Mhhh. Alloraaa. Uffa! Sono ancora all’inizio del viaggio. Poi li imparo un po’ di versetti. Nell’aldilà il suo cervello e la sua parlantina la porteranno a giudizio. Brucerà ben bene all’inferno. Se si sta a ciò che ha raccontato si può tranquillamente dire che non era una ragazza molto virtuosa. Ho visto che il suo cuore era ben annerito nel pozzo del peccato. Per un capello scoperto che resti in inferno migliaia di anni, ma mostrare una spalla nuda? Lo vedrà. Voglio ricordare che persino nel momento del suicidio ha desiderato il vicino. Questa è una sorta di fornicazione. Anche se non attestato formalmente, secondo la sharia la pena per tale peccato è la flagellazione e la lapidazione. È tutto quello che ho da dire. Adesso devo tornare al mio lavoro.
DALLA FOTOGRAFIA DELLA LAUREA CON LA BARBA APPENA TAGLIATA
“Sorridi! Scatto.” Flash! Flash! Flash! Questo scoppio di flash mi ha sempre dato sui nervi. I miei occhi non resistono alla luce abbagliante, si chiudono. Come ci si può aspettare che tenga gli occhi aperti mentre la luce mi esplode dentro. Non capisco. Quante volte oggi le palpebre che ho cercato di regolare al momento esatto in cui il fotografo premeva lo scatto, hanno perso il conto, si sono chiuse un attimo prima del flash.
Avevo scattato la mia prima fotografia da laureato tre giorni fa. L’unica differenza con quella di oggi è che non ho la barba. A dire il vero non una barba qualunque, una barba che chiamano barba rotonda. Indosso la toga blu e il tocco con la nappa sbandierata a sinistra. Non mi sarebbe venuto in mente che tre giorni dopo avrei dovuto rimettermi in posa davanti allo stesso fondo azzurro con il volto rasato. Mio padre, innervosito dalla fotografia inviata con la barba, per tutto il giorno aveva detto a mia madre che non avrebbe appeso quella fotografia in casa; che se l’avesse fatto gli angeli sarebbero scappati. L’ingiustizia del pelo. Lo aveva detto anche quando avevamo cercato di prendere un cane che gli angeli avrebbero abbandonato la casa. Mia madre con tono lacrimevole mi ha dato notizia dell’atteggiamento di mio padre un’ora dopo. Avevo fatto in fretta per farmi fotografare col volto rasato dal comprensivo fotografo della facoltà. Il calore del sangue ancora non coagulato sul volto.
Se mi fosse stata chiesta la lista di tutte le persone al mondo che si sarebbero potute suicidare avrei scritto mia sorella in fondo alla lista. A dire il vero avrei scritto in fondo alla lista anche mia cugina che si è suicidata qualche mese fa… All’inizio i miei avevano cercato di nascondere il suicidio della cugina. Il suicidio era una macchia per la nostra famiglia pulita. Ma l’aver telefonato a numerosi amici dicendo che si sarebbe suicidata ha garantito che il segreto fosse svelato prima di diventare un segreto. Perché? Nessuno lo sa. Perché il suicidio? E adesso mia sorella… La mia bella sorellina… Mio padre la amava più di tutti noi… Povero papà… In che condizione sarai.
Credo ormai che il suicidio sia contagioso. Da mia cugina è passato a mia sorella. Come hai potuto farlo sorellina mia!
Appena uscita dalla custodia quell’arma sarebbe esplosa. È esplosa. Vi invoco da una fotografia che ha fermato il tempo. Non sono una litografia. C’è chi può rimanere impassibile di fronte a una sorella che sta per morire. Non c’era niente che potessi fare, la mia essenza era molto lontana. Ah sorellina, il gatto rosa che hai disegnato e nutrito sentirà molto la tua mancanza.
Il tuo sangue schizzato su di me è diventato tutt’uno con il rosso del graffio della barba tagliata. Sorellina! Il tuo sangue. Sangue noto. Sorellina. Amore mio.
ROMANZO
Il mio posto in questo racconto era sopra il tavolo. Mi aveva lasciato qui la ragazza che si è uccisa. Che fosse saltata al primo capitolo senza leggere la mia prefazione mi aveva sia rattristato che fatto arrabbiare; ma quando mi ha lasciato di nuovo sul tavolo dopo aver letto le prime dodici pagine ho cominciato a sentire la sua mancanza. Si può dire che quelle dita sottili odorassero di sterco. Anch’io ho lasciato il mio odore sulle sue dita. La cura che mostrava per non sciupare le pagine veniva dal timore per suo fratello. Il fratello, quello che aveva studiato, aveva avvertito i fratelli decine di volte “Non sciupatemi le pagine dei libri!”. Aspettavo con impazienza che mi riprendesse tra le sue mani dal punto in cui mi aveva lasciato. Addirittura mentre cercava una scusa ho pregato lo Scrittore che le ricordasse di me. Alla fine l’ha fatto. Quando si è ricordata mi si è acceso dentro un barlume di speranza; ma non ci sarebbe voluto molto perché mi accorgessi che se ne era ricordata troppo tardi. Adesso vedo che dal soffitto tutto bianco la calce rossa gocciola di nuovo sulla ragazza.
Lo so. Qualcun altro mi leggerà. Rivivrò la tristezza di questa lettura a metà quando sarò sfogliato da capo… E poi un giorno mi ritroverete in mano sotto forma di un altro libro o giornale. Ecco a cominciare da oggi, quando tornerò in mano vostra da questo scenario di suicidio fatto di sedimenti, bianchi, rossi, speranze, sarò il trasportatore di questa storia. Soltanto il trasportatore.
PENNA
Tutti hanno rigirato la situazione e si sono messi a parlare di me. Ecco, “se la penna non fosse stata lontana, non sarebbe successo.”
Io non sono un supereroe. Solo un mezzo usato per creare eroi. Con qualche goccia di inchiostro dentro do vita alle parole. La maggior parte delle volte mi riprendo anche la vita che ho dato agli eroi. A volte questo avviene in maniera crudele; ma non sono mai andato oltre la volontà dello Scrittore. Non posso.
Anche se la ragazza mi avesse raggiunto non sarebbe servito a niente. Ero vuota. L’ultima volta sono stata usata quando è stato scritto questo racconto. Poi non sono più stata riempita. Sento la mancanza di una goccia di inchiostro. A dire il vero questo suicidio si poteva fermare anche con una penna vuota, ma che lo Scrittore mi abbia lasciato lontano, che mi abbia svuotato come se piena fossi pericolosa e che abbia fatto ricordare di me alla ragazza solo all’ultimo momento, non dimostra che lo Scrittore aveva pianificato questo suicidio? Nel racconto il fucile che doveva essere vuoto era pieno. E io? Aprite gli occhi! Pensate! Sono forse io il colpevole?!
I nostri eroi hanno vissuto una storia già scritta. Nessuno voleva vivere un simile evento. Se qualcuno qui deve essere criticato e biasimato non c’è altri che lo Scrittore.
Nell’universo dei racconti restiamo impotenti di fronte agli Scrittori che calpestano ogni genere di regole morali universali e poi come niente fosse si rifugiano nella copertina del libro scritta a grandi caratteri. E neppure in questo racconto lo Scrittore parlerà. Giocherà con noi come fossimo giocattoli, farà in modo che ce la prendiamo l’uno con l’altro. Poi scapperà. Fuori dal libro. Poi un giorno mi riempirà e firmerà tutto ciò in un libro. Caro puntini puntini puntini… Gentile puntini puntini puntini…
Ammetto di essere l’arma del delitto.
Trad. G. Ansaldo
Bianco sporco è un racconto di Ercan y Yılmaz pubblicato con il titolo Beyazı Kirli nella raccolta On-Üç Sıfır Sıfır (Dedalus, 2014).
© Diritti riservati per la traduzione italiana, Kaleydoskop, 2017 (su concessione dell’autore).
***
Ercan y Yılmaz è nato a Batman nel 1982. Insegnante, laureato in lingua e letteratura turca, è uno scrittore poliedrico attivo in molti ambiti. Nel 2009 alcuni suoi racconti hanno ricevuto il premio della critica Yaşar Nabi. Lo stesso anno per il racconto qui presentato ha ottenuto il premio Gila Kohen mentre la raccolta in cui è contenuto ha vinto il premio Necati Cumalı nel 2015. Con la casa editrice Mayıs ha pubblicato nel 2012 il suo primo libro, una raccolta di poesie insignita del premio Arkadaş Z. Özger Jüri Şiir Ödülü. I suoi lavori di poesie illustrate sono stati pubblicati in varie raccolte negli Stati Uniti, Inghilterra e Brasile. Autore di due romanzi (Sahir, Alakarga, 2016 e O Öyle Olmadı, Sel, 2017) ha curato per la casa editrice Can una raccolta di racconti tradotti dal curdo (Bir Az Dolaşacağım). Assieme allo scrittore Faruk Duman inoltre cura la rivista Öykü Gazetesi, mensile di racconti di autori inediti. Appassionato di cinema, soprattutto italiano, nel 2011 ha scritto e realizzato un cortometraggio dal titolo Vitrin presentato in diversi festival di Istanbul.
Le illustrazioni sono di ©Eren Topçu.