Un racconto di Sema Kaygusuz
Diciamo che è notte. Il sonno di un neonato si diffonde piano piano in ogni stanza. Neriman, con quell’orgoglio a metà sorpreso di essere diventata nonna in giovane età, ascolta il cuore della bambina sfiorandola con la punta delle dita. Uno spicchio di luce rubato alla luna le cade sul volto, sono già dieci giorni che è nata.
Diciamo che la famiglia è grande quanto una tribù, dato che i vecchi dalla vita curva fanno a gara per scegliere il nome alla bambina, la nuova nata è ancora senza nome. Neriman filtra nella stanza della puerpera e chiude la finestra. Portando come una nuvola quei seni enormi e il ventre rotondo passa nella stanza in punta di piedi e sbatacchiando il cuscino in piume d’oca si posa dentro al letto come un colomba bianca. Diciamo che il signor Ahmet, con quell’asprezza fermentata della vecchiaia è lì lì per addormentarsi di un sonno di formica. Sembra che la sua pancia prominente si sia addormentata prima di lui. Ogni parte del suo corpo emette suoni diversi.
Non sente neppure che Neriman gli si è fatta vicino. Arrotonda verso il soffitto due grandi colpi di tosse per salvarsi dalle ostruzioni nella laringe e si gratta ripetutamente il petto chiazzato.
Con un dolce sussurro Neriman cerca di tirare dalla sua parte Ahmet sulla soglia del sonno. Diciamo che prima di addormentarsi Neriman ha una parola da dirgli. D’altronde lei ha sempre una parola da dire…
– Non dormi Ahmet?, dice con un tono tiepido d’affetto.
Faceva delle prove, come a sforzarsi di non dargli fastidio. Non sentendo risposta si gira rumorosamente nel letto fino a poggiare il seno sul dorso peloso di Ahmet.
-Ti porto un po’ di latte caldo? Ti schiarisce la gola.
Mentre Ahmet si gratta il petto volendo rendere chiaro di aver udito quel mormorio rosato ma di voler ciononostante fare finta di non averlo sentito e dormire, Neriman ci riprova.
– Te lo porto, eh? Lo vuoi?
– Non lo voglio, su dormi ora, dice Ahmet, con tono perentorio ma senza forza.
Diciamo che sono rimasti uno o due argomenti che Neriman ha rimandato al chiaro di luna, quello che Ahmet non sa è che Neriman ha fatto attendere questi piccoli dispiaceri finché in casa non fosse sceso il silenzio, finché non fosse rimasto nessuno in giro. Inoltre, tutte quelle attese le avevano fatto ronzare in testa frasette che cominciano con “diciamo che”, si era messa a cucinare torte pesanti da far perdere il sonno, quindi preparato caffè densissimi e quindi mostrato un volto più sorridente e tollerante del necessario.
– Sono passati dieci giorni e non siamo ancora riusciti a dare un nome a questa ragazzina, dice con voce piccata.
Le mani tozze cominciano a massaggiare lo stomaco dolorante di Ahmet. Tutti quelli che vanno e vengono chiedono che nome le abbiamo messo…
Ahmet finalmente si volta verso Neriman con l’alito d’aglio. Resiste ad aprire gli occhi assonnati parlando di naso.
– Cosa dobbiamo fare, ognuno vuole dire la sua!
Tirata la coperta fin sulle spalle di Ahmet, infilandosi dentro Neriman borbotta:
– Sì ma sta a te scegliere il nome. È la tua prima nipote, inoltre sei il padre della madre!
Ahmet resta a pensare qualche secondo. Ruotando il bianco degli occhi come un pesce fluorescente, dice un nome.
– D’accordo, chiamiamola Ayşen allora. È un bel nome Ayşen.
Diciamo che Ahmet si è ormai arreso, Neriman cerca di tirare per la coda afferrata al volo quella frase innocente.
– Ayşen? Come vuoi, ma anche Ruşen ha chiamato sua nipote Ayşen.
– Ruşen chi?
– Ruşen, quello che vendeva mobili nel nostro vecchio quartiere.
– Ha avuto una nipote?
– Sì, pare… l’ho sentito dire.
Ahmet non è ancora cosciente di essere entrato in una di quelle vie a senso unico che si aprono di notte dalle quali non si può tornare indietro, e che in quelle strade senza uscita resterà intrappolato dalle sopracciglia appena aggrottate di Neriman e dalle domande esitanti nascoste nelle sue risposte. Stropiccia l’elastico del pigiama. Diciamo che Neriman, accorgendosi della lista di nomi che scorre nella testa di Ahmet, si solleva sul letto e portandosi il cuscino di piume d’oca dietro la schiena si mette seduta.
– Allora, dice Ahmet, chiamiamola Gül, un nome di fiore, le sta bene.
– Gül?, dice Neriman, vuoi dare a tua nipote il nome di quella sbracata di Gül? Ti sei dimenticato quante discussioni lo scorso anno?
Ahmet, ricordandosi delle strilla acute di quella sbracata di Gül, contrae il volto in una smorfia. Mettendosi le mani sotto la testa cerca di dare l’impressione di uno che pensa meglio. Alla fine, infastidito punta gli occhi sul soffitto.
– D’accordo, allora Selvi, sì, Selvi! Se mettessi a mia nipote il nome della mia povera mamma? Infilandosi dentro al letto Neriman fa capire di essere rimasta colpita da quel tono tanto deciso.
– Selvi, sì è davvero un bel nome… va bene domattina comunicherai la tua decisione.
Con la tranquillità di aver terminato un altro compito oppure di essersi liberato di Neriman, Ahmet si tira la coperta fin sopra la testa. Certo Selvi… Selvi, mormora. Neriman attende uno o due minuti concentrata sul respiro di Ahmet. Stropicciandosi il naso chiede innocente, o come se lo fosse…
– Selvi, ma a te non sembra un nome un po’ antico?
Diciamo che Selvi era l’ultima decisione di Ahmet. Avendo esaurito la pazienza cominciava a adirarsi.
– Che cos’ha che non va Selvi?! Significa alto, statuario, ecco. Slanciato come un cipresso…
– Sì ma se poi la bimba non viene alta? Da parte nostra siamo tutti bassi…
Ahmet ricomincia a grattarsi il petto inquieto. Strizzando un solo occhio resta un po’ in attesa.
– E allora Oya. Che è anche un nome moderno.
– E se i compagni la prendono in giro?
– Ma per cosa, moglie mia, per cosa!?
Affondando bene la testa nel cuscino Neriman spalanca gli occhi spaventata. O come se lo fosse…
– Cosa urli in piena notte? Sveglierai tutti…
Sbuffando, Ahmet si solleva e tira fuori una sigaretta dal comodino. Nonostante Neriman non voglia che fumi in camera da letto adesso non dice niente per la sigaretta.
– Qualunque cosa dica devi trovarci un difetto, oh! Per cosa dovrebbero prenderla in giro, Oya? Chiede Ahmet.
Neriman risponde con dolce timidezza. Da cinque o sei anni Ahmet non le fa più molta paura.
– “Oya, Oya, colora e olia” dicono.
Aspirando come a bruciare l’intera sigaretta Ahmet dà ancora tre colpi di tosse. Diciamo che il poveretto si è stancato parecchio di scervellarsi più del necessario con quella mente spigolosa per le questioni più semplici.
– Oh signore, che scimunita di donna che sei! Non ho più nessun nome in testa.
Neriman carezzando la spalla di Ahmet parla mollemente appesantita dal sonno.
– Lascia stare, ci penseremo poi. Ad ogni modo un giorno o l’altro lo troverai un nome da darle. Su, spengi quella sigaretta, dormiamo.
Dopo aver spento duramente la sigaretta Ahmet mettendosi a letto spinge altrettanto duramente le gambe di Neriman. Facendole capire che non vuole più parlare ruota la grossa pancia fin all’altro capo del letto. Rimasta scoperta Neriman tira piano la trapunta verso di sé.
– Ahmet, ti ricordi quella maestra che veniva a casa anni fa, la figlia di Saliha, hai presente?
– Mi ricordo, e allora?
– Ti era piaciuta tanto. Avevi detto che era una donna tanto intelligente.
– Ah, sì…
Come si chiamava lei, E… qualcosa con la E, ma, oddio….
Dopo qualche secondo Ahmet si volta verso Neriman. Prendendo a pugni il cuscino come a colpirlo le sputa addosso una minaccia.
– Senti! Dillo che non mi vuoi far dormire! Poi sarò io a non farti dormire!
Allora il sonno di Ahmet si mescola ai ronfi e ai fischi sottili che si levano per la casa. Più si addormenta, più il suo odore si fa pesante. Diciamo che Neriman osserva per un po’ Ahmet con l’aiuto del chiaro di luna, la sua faccia spinosa, i muscoli sbiancati. Poi chiude gli occhi quieta. Increspa le labbra certa che l’indomani sarà un nuovo giorno. Con lo stesso volto aggrinzito si rilassa passando in rassegna quello che c’è per colazione nel frigorifero.
La notte è finita, tutti si svegliano con la luce tersa del giorno. In casa comincia un trambusto, una frenesia. Neriman riesce di nuovo a attirare tutti allo stesso tavolo nello stesso momento con il tè aromatizzato ai chiodi di garofano. Sfregandosi l’acqua di colonia pungente sul volto appena rasato Ahmet entra nella stanza con gli occhi arrossati. In quel momento cala il silenzio. Il genero, presa nel palmo la sigaretta che ha in mano, la spenge nel vaso che ha di fianco. La figlia con la testa confusa ben bene dalla maternità ha tirato fuori il seno pieno di latte e sta allattando la neonata. Quando suo padre entra si riscuote un attimo e si copre il seno con la mano. Perché la prima parola pronunciata da Ahmet non la tocchi, si sforza di non guardare suo padre in volto. Ahmet si avvicina con passi pesanti e carezza la nuca della bambina con quelle mani enormi. Solleva la testa in alto come emettesse un decreto.
– Chiamo mia nipote Elif. Smettetela di pensare inutilmente a un altro nome.
Poi si mette a capotavola guardando Neriman dall’alto come fosse seduto su uno scranno. Neriman è davanti alla teiera fischiante. Portandola in tavola versa il tè a tutti, uno per uno; un vapore beffardo avvolge la sala.
trad. Giulia Ansaldo