Turchia, cultura e società

Coprifuoco. La pandemia in Turchia

in Società

Coprifuoco. La notizia piomba inaspettata il venerdì sera alle 22.00 nei notiziari televisivi e nei siti internet. Una sorpresa perché poche ore prima il ministro della sanità nella sua quotidiana conferenza stampa non aveva lasciato presagire nessuna novità rispetto alle disposizioni vigenti: confinamento obbligatorio per gli ultrasessantenni e i minori di venti anni. Per gli altri “quarantena volontaria”.

Pochi minuti dopo l’annuncio, in tutte le 30 aree metropolitane interessate dal provvedimento centinaia di persone si sono riversate nelle strade ammassandosi di fronte ai piccoli negozi di quartiere, i bakkal, uno dei cardini della vita sociale ed economica del paese. La mia vicina di casa invece ha preferito urlare dalla finestra le sue ordinazioni all’amica che stava allegramente ciabattando verso l’agognato bakkal: pane, acqua, legumi secchi. Torme di giovani festanti si sono accalcati all’entrata dei negozi scherzando e dandosi vigorose pacche sulle spalle mentre intorno si creavano ingorghi di auto. Una situazione per alcuni versi simile a quanto accaduto nel luglio del 2016, la notte del tentato colpo di stato. Questa volta però nell’aria si respirava allegria, quasi eccessiva, vagamente isterica.

Le immagini di questa improvvisa occupazione notturna delle strade che mandava in frantumi settimane di raccomandazioni sul rispetto della distanza sociale e sull’uso delle mascherine hanno quasi subito preso a circolare nei social media, scatenando un’ondata di commenti indignati. Il primo scontato bersaglio, il popolo, dipinto come un branco irrazionale pronto a ignorare qualunque precauzione perché incapace di resistere per un fine settimana all’assenza della dose quotidiana di merendine e snacks. Niente di nuovo nemmeno in questo caso perché in una società che porta evidenti tracce di una struttura castale, “il popolo bue” è sovente bersaglio del disprezzo delle classi agiate. Eppure qualche giorno dopo, la ricerca di una società di sondaggi mostrava che quel 12% degli intervistati scesi in strada fosse andata alla ricerca proprio di quei beni essenziali cercati anche dalla mia vicina di casa. La spesa quotidiana nel bakkal sotto casa per molti non è soltanto parte della socialità quotidiana ma anche una necessità economica visto che una parte consistente della popolazione è pagata su base giornaliera e in ogni caso non dispone delle risorse necessarie per spese settimanali. E poi nel vocabolario turco la misura disponibile per provocare qualcosa di equivalente al famigerato “lockdown” è una sola, il coprifuoco, che in turco più precisamente è definito con una perifrasi “divieto di uscire in strada”. La stessa misura applicata in caso di colpo di stato. Abbastanza comprensibile quindi che il coprifuoco abbia fatto scattare nella popolazione l’associazione di un periodo di confinamento dalla durata indefinita.

Il secondo bersaglio delle critiche è stato il ministro dell’Interno, Soylu, colui che materialmente ha ordinato il coprifuoco. L’indomani in un’intervista ad un quotidiano nazionale ha cercato di giustificarsi spiegando che il provvedimento era stato preso seguendo le disposizioni del Presidente Erdoğan. Un insolito scaricabarile e una chiamata in causa del presidente Erdoğan alquanto spericolata. La domenica, a poche ore dalla fine del coprifuoco, con un tweet il ministro si è assunto tutta la responsabilità della decisione e delle sue infauste conseguenze e annunciato le dimissioni. A questo punto, a spezzare la noia del confinamento casalingo, è cominciato un sorprendente balletto: i social media sono stati inondati di decine di migliaia di messaggi di solidarietà al ministro mentre star e starlettes di second’ordine facevano a gara nel fare dichiarazioni pubbliche per chiedere al ministro di rimanere al suo posto. E un altro colpo di scena si produceva un paio d’ore dopo quando il portavoce del presidente comunicava che le dimissioni erano state respinte e Erdoğan invitava il ministro a continuare il suo lavoro. Il balletto di eventi scatenerà l’indomani una ridda di interpretazioni da parte degli Erdoğanologi intenti a cercare di capire se e come stiano cambiando gli equilibri di potere. L’unica certezza è la nascita di una nuova stella nella costellazione di potere. Il ministro Soylu è l’ex segretario di un partitucolo di centro destra fieramente avversario di Erdoğan, poi cooptato nella compagine governativa. Da quel momento il ministro si è contraddistinto per i modi brutali e aggressivi delle sue dichiarazioni che ricalcano il più classico discorso dei nazionalisti. Il rafforzamento della figura del ministro conferma come da tempo il presidente non sia più l’uomo solo al comando. Il suo potere dipende sempre di più, dopo la svolta presidenzialista, dall’appoggio di partiti e ambienti nazionalisti e dalla sua capacità di soddisfare le loro richieste.

Uğur Çolak

Al di là degli intrighi di palazzo il fine settimana di coprifuoco ha regalato alla grandi aree urbane del paese una vera novità, il silenzio. Settimane di graduali provvedimenti restrittivi avevano già sensibilmente ridotto i rumori della città. Tuttavia due giorni di coprifuoco hanno fatto piombare sulle città del paese un silenzio quasi assoluto. Paradossalmente l’improvviso silenzio ha l’effetto di portare alla memoria alcuni suoni e farli apparire come elementi caratteristici della colonna sonora che accompagnava la nostra vita “prima dell’epidemia”. Il primo di questi è un rumore, o meglio il frastuono dei cantieri. Da anni Istanbul è teatro di un enorme fermento edilizio, che si tratti di opere private o di infrastrutture pubbliche, l’edilizia è uno dei motori dell’economia della città e dei tratti caratteristici di Istanbul. Nei giorni del coprifuoco si è completamente ammutolito il gigantesco cantiere del progetto Galataport, che occupa l’orizzonte di fronte alla mia finestra. Un progetto di “rigenerazione urbana” dal valore di circa un miliardo e mezzo di euro destinato a ridisegnare completamente l’area litoranea accanto al ponte di Galata. Alla fine del progetto ci saranno un porto turistico destinato ad accogliere di nuovo centinaia di navi da crociera, centri commerciali e una passeggiata a mare. Il coprifuoco ha regalato a me e ai miei vicini una tregua dal quotidiano tormento delle macchine battipalo e dei martelli pneumatici. Sollievo effimero però. Lunedì mattina, con la fine del coprifuoco la colonna sonora è ripresa. All’improvviso nel pomeriggio i social media hanno rilanciato un comunicato di un sindacato di edili che annunciava la morte per Covid-19 di un operaio del cantiere Galataport. Il messaggio si concludeva con l’invito agli operai a incrociare le braccia. L’economia vacilla da tempo, le costruzioni sono un settore vitale del sistema erdoğaniano, gli interessi e le aspettative attorno ad un progetto come il Galataport formidabili. Difficile immaginare che l’appello potesse avere successo. Ed invece un’ora dopo sotto le mie finestre ho assistito ad una scena sorprendente. Mentre si erano completamenti taciuti i lamenti delle macchine edili, nel dedalo di strade tortuose e deserte si è materializzato un piccolo gruppo di uomini che indossavano la pettorina rossa del sindacato. Si sono piazzati silenziosamente davanti al principale edificio pubblico del quartiere, l’ufficio di collocamento. Poi uno di loro ha cominciato a leggere un foglio, la distanza era troppa per poter capire cosa diceva. Si trattava però chiaramente “della lettura di un comunicato stampa”, uno dei metodi classici dell’azione collettiva in Turchia. Terminata la lettura così come era arrivato il piccolo drappello silenziosamente è scomparso. Solamente a sera scoprirò che il consorzio che gestisce il progetto Galataport ha annunciato la sospensione provvisoria dei lavori per ragioni sanitarie. L’epidemia ha realizzato un piccolo miracolo, data anche la ormai irrilevanza cronica delle organizzazioni sindacali. Purtroppo però si è trattato di un’eccezione. L’economia non si può fermare. La crisi economica strisciante da prima dell’epidemia e le casse vuote dello stato rendono impossibile fermare tutto. Dopo giorni di esitazione lo ha ammesso anche il portavoce del presidente “Il blocco totale farebbe pagare un prezzo pesantissimo all’economia”. E quindi si continua cercando di mantenere il fragile equilibrio tra le esigenze sanitarie e il bisogno di scongiurare la catastrofe economica. Il blocco totale, chiesto da molti, a partire dal sindaco di Istanbul Imamoglu, è per il momento fuori discussione e undici milioni di turchi continuano ad andare al lavoro.

Il silenzio del coprifuoco evoca anche l’assenza di un altro rumore caratteristico della città pre-epidemia. Il tintinnio delle rotelline dei trolley dei turisti che vagano per le strade del quartiere alla ricerca del loro AirBnb. Il tintinnio, che si faceva particolarmente intenso nel fine settimana, aveva un andamento caratteristico: frenetico all’inizio, si interrompeva quando il pilota di trolley si fermava per controllare la sua posizione sul navigatore del telefonino, per poi ripartire trionfante una volta individuata la meta. L’imminenza del completamento del Galataport e la vicinanza del quartiere ai principali spot turistici ha avuto un impatto profondo anche sui quartieri limitrofi, compreso il mio. Da almeno un paio d’anni si sono moltiplicati gli AirBnb che stanno portando alla progressiva espulsione dei residenti, in gran parte di estrazione popolare. “È la gentrificazione, bellezza!” rispondevano allora a qualunque obiezione i nuovi eroi dell’economia dei servizi. Ora, dall’inizio di marzo, i trolley e i loro proprietari, in gran parte asiatici e arabi che avevano sostituito i flussi turistici europei praticamente azzerati dopo le stagioni degli attentati e dei golpe, sono completamente scomparsi. Con loro apparentemente, anche i proprietari di AirBnb.

Si diceva di un silenzio quasi totale perché in effetti alcuni dei suoni caratteristici della città sono ancora al loro posto. Mentre le moschee sono chiuse da settimane, gli altoparlanti dei minareti continuano regolarmente a lanciare il richiamo alla preghiera cinque volte al giorno.

In altri casi invece nuovi suoni hanno integrato i vecchi. Le immagini degli italiani che cantavano dai balconi hanno avuto un grande successo in Turchia. Non c’è italiano qui che non abbia ricevuto messaggi di congratulazioni e di entusiasmo dagli amici turchi. Inutile cercare di spiegare che in alcune aeree del paese, penso alla mia città natale Bergamo, non ci fosse granché voglia di cantare. Niente da fare, gli italiani che cantano piacciono. Da qui l’ispirazione per un’iniziativa lanciata dai social media “il popolo applaude” destinata a incoraggiare il lavoro degli operatori sanitari. Qualche giorno dopo l’annuncio della prima vittima, alle 21, dai balconi e finestre del paese sono partite salve di applausi. Certamente ogni quartiere ha dato la sua specifica interpretazione all’evento. Nel mio, accanto agli applausi mentre alcuni vicini suonavano pentole, altri più rumorosamente hanno sparato in aria. Una tradizione antica, associata alle feste di matrimonio, quella dell’uso delle armi da fuoco. Avendo provocato regolarmente un discreto bilancio di vittime, sono state giudicate pratiche incompatibili con una società “moderna e civile” e quindi proibite. Ma le autorità sanno quando è necessario chiudere un occhio, soprattutto in un’area che è serbatoio di voti per il partito del presidente. All’iniziativa aveva partecipato anche il Presidente in persona facendo benevolmente circolare un video che ritraeva lui e la gentile consorte, elegantissimi e plaudenti da uno degli innumerevoli balconi del palazzo presidenziale ad Ankara. Gli applausi hanno però avuto vita breve. Nello spazio di pochissimi giorni il potentissimo Direttorato per gli Affari Religiosi, l’organismo statale che gestisce moschee e faccende religiose, ha introdotto una preghiera speciale trasmessa da tutti i minareti del paese, alle 21 appunto. Il cielo di Istanbul si è quindi riempito di centinaia di voci che pregavano per gli operatori sanitari e chiedevano all’Onnipotente di proteggere, in rigoroso ordine gerarchico, lo stato, il popolo turco, la umma islamica e infine l’umanità tutta. L’effetto inizialmente suggestivo con il tempo ha lasciato spazio ad una strisciante sensazione di angoscia, anche perché la preghiera si conclude con la recitazione della prima Sura del Corano, generalmente riservata ai defunti. La discesa in campo dell’apparato religioso, molto rumorosa visto la massa di decibel mobilitata, ha avuto l’effetto quasi immediato di far cessare gli applausi. Questa battaglia a colpi di decibel in fondo simboleggia l’irrefrenabile tendenza dello stato turco al controllo e alla prevaricazione di qualunque iniziativa dal basso. Dall’altro mostra come il ricorso al religioso faccia parte integrante delle politiche pubbliche di contenimento dell’epidemia. Tra i tanti ha smesso di applaudire anche il mio vicino di casa, il signor Fahrettin. Un arzillo e simpatico pensionato che ha passato l’intera vita in Germania, ed è rimasto bloccato a Istanbul in uno dei suoi frequenti ritorni nel quartiere natale. Come molti emigrati in Germania anche Fahrettin parla qualche parola di italiano, retaggio di anni di condivisione di cantieri e luoghi di residenza con gli emigrati italiani. Uomo molto pio, oltreché grande sostenitore del presidente, capisco che è tornato a Istanbul quando sento filtrare dalla sottile parete che ci divide il suono delicato della sua voce mentre salmodia qualche canto sacro. Adesso senza più l’appuntamento serale dell’applauso, compare raramente sul balcone. Lo rivedo quando molto cortesemente viene a portarmi un piatto di foglie di vite ripiene di riso preparate dalla moglie. Dal tono dimesso della voce traspare il suo rammarico per essersi fatto sorprendere dall’epidemia lontano dal rassicurante ombrello dell’organizzazione teutonica.

Riavvolgendo il nastro della storia dell’epidemia appare tuttavia abbastanza chiaro come l’atteggiamento con cui la politica e i media turchi hanno affrontato la pandemia ricalca per molti aspetti quanto visto in altri paesi. Dopo che le autorità a fine febbraio hanno sospeso i collegamenti aerei con Cina ed Iran, il virus è sparito dai radar. Mentre sulla ormai famigerata carta della Johns Hopkins University si moltiplicavano i pallini rossi del contagio globale, la Turchia rimaneva miracolosamente uno spazio scuro e incontaminato. Sono stati centinaia i privati cittadini e i giornalisti finiti in un commissariato per aver cercato di mettere in dubbio questo quadretto idilliaco. Poi, di fronte alla pressione costante che veniva soprattutto dai social media dove avevano cominciato a circolare le ipotesi più inverosimili, le autorità hanno dovuto cedere, molto lentamente. Prima ammettendo la presenza di contagiati “tutti quanti infettati durante soggiorni all’estero” per rassicurare che l’impurità non poteva che avere un’origine “straniera”. Poi il ministro della sanità Koca ha convocato a sorpresa un’inusuale conferenza stampa notturna per annunciare la prima vittima. Era il 17 marzo. Dopo che le parole del ministro hanno autorizzato la presenza dell’epidemia, al presidente Erdoğan spettava il compito di definire le modalità con le quali fosse accettabile parlarne. Il presidente ama le narrative trionfali e rifugge dalle situazioni in cui la sua figura possa essere associata al negativo e rivelare un qualche segno di debolezza. Per questa ragione, come già accaduto nel recente passato, anche questa volta ha atteso parecchi giorni prima di rompere il suo silenzio. Quando ha infine parlato alla nazione gran parte del suo discorso è stato dedicato ad illustrare le misure economiche, destinate prevalentemente alle aziende, per affrontare la situazione. Riferendosi invece al virus e all’epidemia la narrativa è stata tutta all’insegna del trionfo: tutte le precauzioni sono state prese prima e meglio rispetto agli altri paesi; il nostro sistema sanitario è forte e preparato e non ci sono carenze di materiali. Tanto che il presidente ha spedito ai quattro angoli del globo aerei carichi di forniture mediche. È incontrovertibile che la sanità pubblica abbia fatto importanti progressi nei vent’anni dell’era Erdoğan. Cure mediche migliori e accessibili ad ampi strati della popolazione sono state tra gli ingredienti del successo del partito del presidente. Tuttavia come spesso accade il presidente si è lasciato prendere la mano arrivando a affermare che “prima di noi le ambulanze praticamente non esistevano”.

Corollario immancabile della narrativa trionfale è il confronto con gli altri paesi, meglio con l’Occidente, dal quale la Turchia esce necessariamente vittoriosa. Il presidente ha sottolineato le carenze dei sistemi sanitari dei “paesi liberali europei” e rassicurato che la Turchia non finirà come la Spagna e l’Italia. Altro elemento immancabile dei discorsi presidenziali è il fascino per il gigantismo: la promessa di realizzazioni sempre “le più grandi e le più moderne”. Puntualmente Erdoğan ha annunciato la costruzione di due ospedali Covid ad Istanbul, ovviamente giganteschi, da mille posti l’uno. I soliti maligni hanno visto in questa scelta, che esclude la possibilità di ospedali da campo più veloci da realizzare e soprattutto meno costosi, la volontà di aprire la strada a nuove speculazioni edilizie.

Adan Onur Acar

Infine, immancabile ingrediente dei discorsi presidenziali, il riferimento ai valori locali. La pulizia, tradizionale pilastro della cultura turca, è stata quindi reclutata nella battaglia contro il virus. In appoggio il presidente ha evocato anche un altro cardine della socialità popolare: l’acqua di colonia, rigorosamente al limone, da sempre offerta agli ospiti al loro ingresso in casa perché possano liberarsi delle impurità dello spazio esterno. Snobbata dalle classi “occidentalizzate e moderne” proprio perché associata alle pratiche “esotiche” degli strati popalari, l’acqua di colonia si trova ad entrare nel pantheon degli eroi del coronavirus grazie al fatto che il presidente ha promesso la distribuzione gratuita del prezioso liquido agli anziani del paese. Effettivamente una settimana più tardi due poliziotti si sono presentati alla porta dell’altra mia vicina, Ayse, una settantenne sempre gioviale nonostante i suoi innumerevoli acciacchi, per consegnarle una busta, con un gigantesco logo della presidenza della repubblica, contenente appunto la colonia e mascherine chirurgiche.

I grandi media del paese riproducono accuratamente la narrativa presidenziale. La narrazione dell’epidemia coincide con una lunga sequenza di notizie rassicuranti, sequenze di storie positive ed edificanti di persone che hanno “vinto la battaglia contro il virus”. Immagini di pazienti dimessi tra due ali di infermieri plaudenti. Gli interventi di esperti che illustrano le azioni del governo e ripetono le avvertenze riguardo mascherine e distanze sociali. Rare sono le immagini e i racconti dall’interno degli ospedali che suggeriscano il dramma e la fragilità. Il negativo e la sofferenza sono completamenti esclusi dal discorso. Le vittime assumono un’identità precisa e un volto solamente quando si tratta di personaggi noti: un ex capo di stato maggiore, un famoso primario ospedaliero. Le altre invece continuano a rimanere nell’anonimato delle statistiche quotidianamente comunicate dal ministro. Dramma e catastrofismo sono invece la cifra dominante nelle notizie provenienti dall’estero. Continui aggiornamenti sottolineano, con toni quasi compiaciuti, la gravità degli altri: “La Spagna è in ginocchio”, “Tragedia in Italia”, “Si aggrava il bilancio in Europa”. Per vincere questa immaginaria competizione con l’Occidente, vecchia ossessione nazionale che il sistema erdoğaniano ha eretto a pilastro del discorso pubblico, i media reclutano anche i personaggi più impensati. È così che la fidanzata italiana del calciatore Boateng appare, circondata da fotografie ammiccanti, nei siti di informazione per dichiarare di sentirsi più al sicuro a Istanbul che in Italia.

Nei giorni successivi i discorsi del presidente, rigorosamente senza giornalisti e domande imbarazzanti, si sono moltiplicati. Invariato il tono trionfante, i contenuti si sono fatti più articolati. Con uno stile estremamente enfatico il presidente sciorina a ripetizione una lunghissima serie di provvedimenti: assegni di sostegno alle famiglie indigenti, agevolazioni per l’acquisto della casa, rinvio delle cadenze delle bollette, provvedimenti a favori degli agricoltori, un fantomatico corso online destinato a formare 100mila programmatori informatici tra i giovani. Una tempesta di dati e provvedimenti, alcuni bizzarri, con l’obiettivo di dimostrare che il presidente si preoccupa del paese ma che lascia l’ascoltatore completamente disorientato e in fondo con la sensazione che la situazione sia veramente grave. Al presidente tocca anche di spiegare il provvedimento “svuotacarceri” che concede la libertà a 45mila detenuti mentre ad altri 45mila assegna forme alternative di detenzione. Assicura che è stato pensato tenendo conto delle fantomatiche “sensibilità della popolazione”. Non sorprende che sia stato disegnato in modo da escludere le migliaia di detenuti politici, giornalisti ed attivisti da tempo in attesa di giudizio. Non sorprende nemmeno ritrovare nella lista dei beneficiari del provvedimento alcuni rappresentanti della criminalità organizzata, per i quali il leader del partito nazionalista chiedeva da tempo l’amnistia.

Ma soprattutto negli ultimi discorsi nel mirino del presidente ci sono i sindaci, del partito di opposizione, delle grandi città del paese.

Alcune settimane fa quando uno dopo l’altro i sindaci di Istanbul e Ankara avevano annunciato una campagna di raccolta fondi, lo zelante ministro dell’interno era intervenuto per bloccare i conti bancari dei comuni accusando i sindaci di voler creare uno stato parallelo, raccogliendo fondi come “i terroristi”.

Adesso è lo stesso Erdoğan a prendere la parola. Con toni incredibilmente violenti ha paragonato le campagne di distribuzione di viveri alla popolazione indigente sempre lanciata dai sindaci del CHP, ad un’azione di sabotaggio riproponendo il parallelo con “i terroristi” e definendo quel tipo di politica “un virus da debellare”. Dietro quest’attacco trapela tutto l’affanno di un presidente che teme che la diffusione dell’epidemia e lo spettro incombente della crisi economica possano trascinare con sé anche il suo sistema di potere già traballante.

Ma appunto, che ne è dell’epidemia? Le cifre fornite quotidianamente dal ministro della sanità parlano ormai di quasi 100mila contagiati, una cifra che pone la Turchia tra i primi dieci paesi al mondo, mentre 2.159 sono le vittime. La strategia illustrata dal ministro racconta di un numero molto alto di tamponi eseguiti, 713mila, un tracciamento sistematico da parte di equipe mobili di coloro che sono venuti a contatto con i contagiati e una terapia farmacologica precoce. Misure che per il ministro avrebbe contenuto il ricorso alle terapie intensive, che secondo le statistiche ufficiali precedenti l’epidemia sarebbero un numero enorme, quasi 40mila. E di conseguenza contenuto anche il bilancio delle vittime. Un quadro serio ma sotto controllo, in fondo coerente con la narrazione ufficiale si direbbe. Tuttavia queste cifre non mancano di suscitare dubbi e interrogativi. In particolare il numero delle vittime che sarebbe ampiamente sottostimato. In primo luogo l’ammissione ufficiale della prima vittima solo il 17 marzo esclude dalle statistiche le, probabili, vittime precedenti. Secondariamente il metodo di classificazione dei decessi è messo in discussione. Da tempo filtrano indiscrezioni e racconti secondo cui molti decessi verrebbero ufficialmente attributi a cause diverse dal Covid-19. Ormai anche alcuni media mainstream, ed anche un’inchiesta del New York Times, hanno timidamente cominciato a mettere in dubbio l’affidabilità di queste cifre, almeno per il caso di Istanbul, dove ci sono più della metà dei contagi. Analizzando le statistiche ufficiali sui decessi totali nella città questi articoli rilevano come nei primi mesi del 2020 i numeri siano in realtà di molto superiori, dal 10% al 50%, rispetto allo stesso periodo degli anni precedenti. La questione è arrivata in parlamento dove un deputato del Buon Partito ha chiesto spiegazioni al ministro. Fino ad ora, ad ogni dubbio sollevato sulle statistiche il ministro aveva citato l’OMS secondo cui i dati forniti dalla Turchia sono estremamente trasparenti.

Dal fronte degli ospedali poi associazioni di medici denunciano molti casi di contagio tra il personale. L’Associazione psichiatrica turca ha creato una linea telefonica per fornire supporto psicologico agli operatori sanitari. Capitolo a parte è il caso di un altro protagonista dell’epidemia, la mascherina chirurgica. Le autorità ne hanno vietata la vendita promettendo una distribuzione gratuita alla popolazione. Le associazioni di farmacisti però denunciano ritardi nelle consegne e spesso anche la cattiva qualità del materiale. Mentre anch’io aspetto la mia razione di mascherine, il presidente annuncia un nuovo, prolungato, coprifuoco di quattro giorni. Il ritorno alla normalità sarebbe però vicino, vicinissimo. Alla fine di maggio, ovviamente in coincidenza con la conclusione del mese sacro del Ramadan. Inshallah.

Istanbul, 22 aprile 2020

di Fabio Salomoni

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su Gli Asini

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