Di seguito pubblichiamo la seconda storia tratta da Kolay Gelsin, il volume di Rita Ender sui mestieri di Istanbul, di cui presenteremo cinque capitoli grazie alla segnalazione e traduzione di Emanuela Pergolizzi.
Il venditore dei corsetti farfalla – İlya Avramoğlu, Beyoğlu
Le persone muoiono, i luoghi rimangono. Le persone dimenticano, i luoghi ricordano. Le persone cambiano, i luoghi conservano. Ma quando le persone non stravolgono i luoghi, ecco, allora tutto rimane vivo.
La memoria della Turchia, nonostante tutti i suoi cambiamenti, resta viva proprio a Beyoğlu, è su Istiklal caddesi che si rigenera. È qui che si regolano conti, che si viene per reclamare i propri diritti. Gli studenti, gli omosessuali, i lavoratori, le femministe, i fascisti, la polizia… tutti vengono qui a far sentire la propria voce. I commercianti lungo l’Istiklal possono partecipare alle proteste o rimanervi vittime. Proprio come il negozio “Corsetti farfalla”, da settantacinque anni al civico 433. Il protagonista di questa storia ha ereditato il locale e l’esperienza di commerciante dal nonno, passando per il padre. I ricordi evocati dalla bottega, per i tre, sono diversi, e fanno tornare in mente le parole dello storico Marc Bloch: «Gli uomini sono sempre più figli del loro tempo, che del loro padre».
Siamo andati da İlya Avramoğlu, disegnatore e venditore di corsetti farfalla, per parlare della sua esperienza di commerciante a Beyoğlu.
Iniziamo dal nome del suo negozio, İlya: come mai “Corsetti farfalla”?
Ma è semplice! Perché le signore usano i corsetti? Per vedersi più magre. «Quando indossano un corsetto, le donne si sentono più leggere di una farfalla». E così mio nonno scelse questo nome. Nel nostro Paese, tre generazioni di donne sono diventate più magre con i corsetti farfalla.
Qual è la storia di queste tre generazioni, una storia che si tramanda da nonno a nipote?
Il negozio è stato fondato nel 1936, conserviamo ancora il primo documento. Negli anni ’20 avevamo un negozio nel Pasaj Terkos. Mio nonno lo aprì insieme a suo fratello.
Allora vendevano già tessuti e corsetti?
Nel 1930 in Turchia non esistevano ancora le fabbriche né le grandi produzioni di tessili. Sull’Istiklal caddesi c’erano dei negozi con le macchine per lavorare, ognuno vendeva quel che riusciva a realizzare. Certo, per produrre c’era bisogno di materie prime: elastici, stoffa, giarrettiere. Allora gli elastici per corsetti venivano dall’estero. Mio nonno ha lavorato lì per dieci anni. Poi si è liberato questo negozio, prima c’era un venditore di tappeti. Nel 1936 mio nonno, suo fratello e mio padre iniziarono a vendere corsetti. Allora mio padre aveva quattordici anni.
Che cos’è cambiato per loro, dopo il trasferimento sull’Istiklal?
Mentre continuavano a vendere prodotti finiti, iniziarono a disegnare corsetti. Era un vero atelier, c’erano quattro macchine e cinque o sei lavoratori. Cucivano corsetti su misura, reggiseni, corsetti con culottes, corsetti allargati, pancere. Allora il novanta percento dei corsetti si faceva con il cotone popeline, non c’era molta elasticità. Pian piano, dagli anni ’50, in Turchia iniziarono a nascere le prime fabbriche di biancheria intima. Le grandi firme di oggi comparivano in quel periodo come piccoli atelier e a poco a poco sono cresciuti. Hanno iniziato a comprare i materiali all’ingrosso e a vendere i loro prodotti. Noi abbiamo continuato la nostra lavorazione fino al 1980. Dopo quella data abbiamo iniziato ad avere problemi a trovare dipendenti e abbiamo chiuso il settore relativo alla produzione. Siamo rimasti solo io e mio padre in negozio. C’erano due industrie con cui avevamo degli accordi, hanno continuato loro a fabbricare i nostri corsetti. Lo fanno ancora oggi. Alcuni di questi modelli, in tutta la Turchia, li vendiamo solo noi.
Come avete vissuto questa scelta? Fermare la produzione deve essere stato un po’ come cambiare mestiere…
Quando mio nonno fondò il negozio, Beyoğlu era il centro esclusivo per lo shopping. Tutti venivano qui per comprare, non c’era luogo migliore per gli acquisti. Avevamo molti bravi impiegati. Erano persone educate, istruite, generalmente facevano parte delle minoranze: Greci, Armeni, a volte anche Turchi. Con il passare del tempo però Istanbul si è ingrandita, si sono aperti centri commerciali. Tutti possono trovare quel che serve vicino casa. Chiaramente, anche le nostre forze ne hanno risentito. In più, le strade qui sono state chiuse al traffico. Noi vendevamo corsetti speciali fatti per chi ha problemi ortopedici o di peso. Questi clienti venivano in macchina, poi non ne ebbero più la possibilità.
Cominciammo ad avere grandi problemi a trovare nuovi assistenti. Nel 1981 lavorava qui una ragazza, ma poi scoprimmo che faceva uso di droghe. Una volta un signore entrò in negozio, la prese per i capelli e la portò via. In mano aveva una pistola, mio padre non poté fare niente. «D’ora in poi non assumerò più nessuno, non è possibile», decise. Abbiamo chiuso l’atelier definitivamente. Prima, quando avevamo dei dipendenti, non solo portavamo avanti la produzione, ma facevamo anche riparazioni di reggiseni o corsetti, e da questi riuscivamo a ricavare un bel guadagno. Chiudere la produzione per noi ha significato anche registrare forti perdite. Abbiamo perso lavoro, ora ci teniamo in piedi a stento. I prezzi degli affitti qui sono diventati altissimi. Noi siamo affittuari di una chiesa, ora stiamo vivendo alcuni problemi. Solo Allah sa quanto potremo durare ancora.
Rimanete in piedi senza cambiare niente…
Sì, i decori non li abbiamo mai cambiati, sono gli stessi dal 1900. Il negozio era così quando siamo entrati e così lo abbiamo lasciato. Cerchiamo di proteggere queste decorazioni. Mi piace molto com’è il negozio e so che piace a tanti altri. Ci sono persone che entrano anche solo per vedere il locale! Rimanete qui, di fronte alla porta per qualche ora, e vedrete quante persone si fermano a fare foto. Siamo un pezzo di storia. Non ci penso proprio a cambiare questo posto o a buttarlo giù. Se ce lo permetteranno, continueremo a rimanere aperti, così.
La quarta generazione continuerà il mestiere del padre?
Mio figlio sta cercando di diventare ingegnere informatico. Mia figlia è piccola, è ancora alle elementari. Non so che cosa ci riserverà il futuro ma per ora sono solo qui. Mio padre è molto anziano, ha novant’anni anni, non viene più.
Ha mai pensato di fare un altro mestiere?
No. Quando ho finito il liceo, mio padre disse: «Non c’è bisogno dell’università; qui c’è da fare, vieni e lavora». Lo trovai un consiglio sensato.
Tutto inizia da Beyoğlu, tutto passa da Beyoğlu.
Certo! Quando non c’è una manifestazione penso: «Guarda com’è tranquillo!». Ci sono proteste ogni giorno. A volte creano problemi, altre volte no. Ci sono manifestazioni politiche, prima del 12 settembre ci sono stati anche scontri armati. Un giorno hanno messo una bomba al consolato inglese, è stato spaventoso! Sono uscito subito fuori, solo cinque giorni prima era scoppiata un’altra bomba alla sinagoga, mio fratello per poco non aveva perso la vita. Ho visto una nube di polvere e poi ho sentito quell’odore… odore di esplosivo. «Papà», dissi, «non ci sarà più il consolato inglese!». Lì avevamo tantissimi conoscenti. Ricordo il Buffet Levent: era un locale di proprietari greci, facevano le uova con la salsiccia, ottimi antipasti… Davanti a loro c’era un venditore di kebab. Per fortuna non successe niente a nessuno di loro. Dopo la bomba ci fu un enorme flusso di persone, polvere ovunque. Decine di poliziotti con armi in mano. Quello che mi spaventa di più sono le provocazioni, se ci sono provocazioni scoppia l’inferno.
L’inferno è scoppiato, ma il 6-7 settembre del 1955...
Io non ero ancora nato, ma mio padre era qui. Abbiamo subito perdite importanti. Le pareti del negozio furono distrutte a martellate, abbiamo lasciato volutamente alcuni dei segni sui muri. Sono entrati nelle case dei Greci a Beyoğlu e a Şişli. Ci sono stati molti problemi, uno o due morti, ma nella sfortuna poteva andare peggio. La merce ha subito forti perdite. Ormai non ha più senso parlarne. Volevano girare qui un film sugli eventi del 6-7 settembre 1955, io non ho voluto. Non voglio ripensare a quella faccenda, è una storia molto triste. Troppe persone hanno vissuto momenti difficili. Me ne parlavano sempre mio padre e mio nonno. E in più non si ottiene mai niente di buono nell’entrare in queste questioni politiche. Non ne si ricava niente, per nessuno. Sì, abbiamo visto scontri armati ma anche belle manifestazioni, parate ufficiali. Allora, quando ero piccolo, Istanbul aveva tre milioni di abitanti. «Tre milioni, che confusione!», si diceva. Ora se ne contano venti.
Ci sono differenze tra i clienti di una città con venti milioni di abitanti e quella di un tempo?
Certamente, le differenze sono enormi. La mentalità delle signore degli anni ’30 e ’40 era molto diversa da quella di oggi. Il loro modo di vestire era radicalmente diverso. Allora esistevano i corsetti a filo, oggi no. Una parte dei corsetti si faceva con un materiale elastico e un’altra parte con la stoffa. Non ne avevamo mai molto di questo materiale ma lo ordinavamo prima delle feste o prima di Capodanno, in modo da essere pronti per quelle date. Anche le relazioni tra uomo e donna erano diverse, negli anni ’30 si era più conservatori. Ora è tutto più facile .
Il suo mestiere ha un po’ a che vedere anche con la sessualità, non è così?
Certo, vendendo intimo abbiamo direttamente a che fare con la sessualità. E diventa ancora più evidente per il fatto che non abbiamo commesse donne. Soprattutto le clienti arabe, quando mi vedono sulla porta, spesso si allontanano. Ora sono abituato, non ho problemi. [2/5 continua…]
trad. di E. Pergolizzi
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Con Il venditore dei corsetti farfalla continuiamo la pubblicazione delle storie tratte dal volume Kolay Gelsin. Meslekler ve Mekânlar di Rita Ender (İletişim, 2015, 3° ediz. 2017).
Si ringraziano: l’autrice Rita Ender, la traduttrice Emanuela Pergolizzi e la casa editrice İletişim.
Fotografie di Sezgi Abalı e Zeliha Doğan
©Diritti riservati per la traduzione italiana, Kaleydoskop, 2017 (su concessione di İletişim, Istanbul).