Turchia, cultura e società

Kolay gelsin! Alla scoperta dei vecchi mestieri di Istanbul – 1

in Società

Un riparatore di penne stilografiche vicino alla stazione ferroviaria di Eminönü, un orologiaio in un vecchio sottoscala dietro piazza Taksim, una signora che ha imparato dalla madre l’arte dei cappelli su misura nei tempi in cui a Istanbul non si usciva di casa senza un copricapo adeguato.

Non sono i personaggi di una fiaba ma i protagonisti viventi di un mondo che Rita Ender, giovane avvocatessa e scrittrice nata e cresciuta a Istanbul, è andata a esplorare e di cui ha scritto la storia prima che possa essere dimenticata. Dal 2012 al 2014 Rita ha incontrato vecchi fabbri, artigiani, sarte, rigattieri in diversi quartieri pubblicandone la storia su Agos, il settimanale armeno fondato nel 1996 e diretto per anni da Hrant Dink prima del suo assassinio.
Nel 2015 le storie da lei raccolte, più di un’ottantina, sono state pubblicate da una delle maggiori case editrici turche, İletişim, con il titolo Kolay gelsin. “Kolay Gelsin”, letteralmente “che ti sia facile”, è l’espressione turca più utilizzata per salutare chi sta lavorando, manualmente o non, entrando in un negozio, in una biblioteca o chiunque stia per cimentarsi su un compito difficile.

Riscoprendo botteghe e racconti che rischiano la scomparsa Rita ha fissato su carta la storia di mestieri e tradizioni tramandate di padre in figlio. Il libro è una guida agli antichi mestieri di Istanbul ma anche un’indiretta denuncia delle politiche di riqualificazione che hanno smantellato parte del vecchio tessuto urbano, specialmente in alcuni quartieri storici come quello di Beyoğlu, per favorire il turismo e nuovi progetti edilizi. “Istanbul”, scrive Rita in prefazione, “più si ingrandisce, più diventa sola”.

“Istanbul” – prosegue – “con il tempo, perde le sue lingue”. Molti tra i personaggi intervistati infatti fanno parte delle minoranze che hanno storicamente convissuto in Turchia ricordando, in un momento di tensioni sempre crescenti, episodi di vicinanza tra chi, insieme al turco, parlava anche greco, armeno e ladino. Parte di questi angoli di memoria non esiste già più: alcuni artigiani, ormai anziani, sono andati in pensione; altri, come İlya Avramoğlu, proprietario di un negozio di gestione familiare che per settantanove anni ha venduto corsetti e panciere, hanno chiuso a seguito di un emendamento di legge che dal 2015 permette lo sfratto ingiustificato di chi è stato affittuario per più di dieci anni dello stesso locale.

Grazie alla sensibilità e alla capacità di ascolto di Rita queste storie portano il lettore, insieme a lei, a far rivivere la memoria di luoghi quasi fantastici mentre “Kolay Gelsin” si presta a essere una guida e uno specchio anche della nostra società, dove alcune tradizioni artigiane rischiano la scomparsa.

Dopo Kolay Gelsin, nel 2016, l’autrice ha pubblicato İsmiyle yaşamak (it. Vivere con il proprio nome), una raccolta di interviste a persone cresciute con un nome straniero in Turchia, spesso perché membri di una minoranza religiosa o etnica. In questa seconda pubblicazione Rita esplora il significato di certi nomi e le esperienze, spesso avventurose ma non sempre positive, delle persone che li portano, riflettendo sulla relazione tra lingua, identità e appartenenza. Sempre nel 2015 invece Rita ha girato un documentario dal titolo Las Ultimas Palavras alla riscoperta del ladino e delle radici della minoranza giudeo-spagnola in Turchia. (emanuela pergolizzi)

 


L’orologiaio – Mustafa Demirci, Beyoglu

 

©BergeArabian

«L’orologio, l’amico più intimo dell’uomo, l’oggetto che fa compagnia al battito del suo cuore sul polso, che condivide tutte le emozioni del suo petto, in breve che si scalda con il suo calore, che lo abbraccia o che trascorre insieme a lui tutto il tempo che noi chiamiamo “giorno”, che lo voglia o no, inizierà a somigliare al suo proprietario, si abituerà a vivere e a pensare come lui».
Ahmet Hamdi Tanpinar, L’Istituto per la Regolazione degli Orologi

 

Gli orologi, come scriveva Tanpinar, «che lo vogliano o meno, cambiano il loro funzionamento a seconda del credo politico, della vita matrimoniale, della velocità dei cambiamenti d’umore o dello stato d’animo del proprietario». E come ci ricorda il protagonista di questa storia: «Nessun orologio è uguale a un altro. Uno è sempre un po’ avanti, un altro è sempre un po’ indietro».

Per alcuni riparatori di orologi prenderne uno in carico è quindi una questione molto delicata. Questi esperti sanno molto bene che l’oggetto su cui lavorano è profondamente personale, perché racchiude al suo interno tante memorie.
Siamo andati a incontrare uno di questi mastri orologiai, Mustafa Demirci, nel suo piccolissimo negozio a Galatasaray.

Iniziamo dall’apertura del suo negozio, Mustafa. Quando è arrivato qui?

Iniziai nel 1978, dopo aver imparato da un mastro orologiaio iugoslavo. Era davvero un esperto, un artista. Con il suo piccolo cacciavite era in grado di portare a termine lavori che nemmeno le grandi imprese riuscivano a fare. Sono stato vicino a lui con pazienza in una bottega al cinema Yeni Melek per dieci anni. Nel 1988 ho aperto il mio negozio al Suriye Pasaji.

Perché ha scelto questo mestiere?

©ReysiKamhi

Mio padre sapeva fare lavori di ogni tipo ma l’unico che non gli riusciva era riparare gli orologi. Io avevo rotto tutti quelli di casa nostra ma lui non si era arrabbiato, li aveva solo raccolti in una scatola. Poi un giorno, per caso, fuori dalla moschea, conobbe quello che sarebbe diventato il mio insegnante. Al tempo, con il proverbio “la carne è tua, le ossa sono mie”, si portavano i ragazzi dagli artigiani. E anche per me è andata così. Ho preso il certificato dopo aver lavorato per dieci anni dal mio maestro, ma prima era necessario imparare ad aggiustare tutti i tipi di orologi. Siccome il mio insegnante era un grande artista, l’Associazione degli Orologiai aveva pensato che sarebbe stata un’offesa far sostenere un esame a me, che ero suo assistente. Così mi diedero il certificato senza alcuna prova. Quando lo raccontai a mio padre, tirò fuori lo scatolone con tutti gli orologi rotti che aveva preso in casa e mi disse: «Allora adesso aggiusta questi… chissà, forse il certificato l’hai preso pagando». Solo quando finii di sistemarli mio padre decretò: «Va bene, adesso può andare».

Dopo il certificato e l’approvazione di suo padre, ha aperto da solo la bottega al Suriye Pasaji?

Sì, rilevai la bottega da un orologiaio anziano che stava lasciando il lavoro. Era armeno, si chiamava Minas Uzunca, anche lui un ottimo mastro. Mi ha aiutato molto con l’affitto e il trasloco. Nei sei mesi successivi al trasferimento, fece avanti e indietro tutti i giorni, sparse la voce tra i suoi vecchi clienti, mi presentò ai suoi conoscenti rigattieri. Sono cose che non tutti farebbero. Questo è il terzo negozio che cambio, per colpa della crisi. Gli affitti sono molto cari e ormai non c’è più bisogno di queste botteghe. I prezzi degli orologi si sono abbassati, ora ci sono i prodotti cinesi che si vendono per cinque lire. Un tempo per un orologio si potevano spendere uno o ben due stipendi ma poi duravano per tutta la vita, e se si rompevano si andavano a far aggiustare. Eravamo così pieni di lavoro che ci sembrava di non venirne a capo. Oggi, invece di ripararne uno, lo comprano nuovo. Ovviamente i giovani preferiscono avere oggetti più moderni. Gli amanti degli orologi di un tempo invecchiano. E invecchiando, molti non si curano più degli orologi. I figli non se ne interessano, dicono: «Questo che cos’è? E io dovrei perderci tempo?», e ne comprano uno simile, ma a pile. Le nuove generazioni sono così. D’altra parte molti bottegai sono in pensione, o non ci sono più. Ci si conta sul palmo di una mano. Anche questo mestiere non si insegna più, con l’arrivo dei prodotti stranieri non è rimasto futuro per questa professione. Siamo gli ultimi combattenti.

Quindi lei oggi ripara solo orologi antichi?

Lavoro sia sugli orologi vecchi sia su quelli elettronici e a pile… ma certo, per fortuna ci sono ancora orologi antichi! Nella riparazione di questi oggetti la fiducia è molto importante. Spesso siamo invitati in case che altri non potrebbero visitare nemmeno pagando. Che siano i Sabanci o i Soyaklar, l’architetto che lavora per loro spesso dice: «Voglio un orologiaio che sia come me!» e con la fiducia che ci viene data entriamo in casa loro. Tanti di questi orologi sono elettronici ma nelle case ce ne sono ancora molti antichi, sopra al camino, vicino a un candelabro… e noi andiamo a curarli ogni anno. È stato così fino a oggi.

Com’erano i primi orologi?

C’erano gli orologi ad acqua, quelli solari, gli orologi francesi, inglesi, tedeschi… per quelli solari, ad esempio, si scavava un piccolo fosso e quando vi arrivava l’ombra si sapeva che era pomeriggio. Per gli orologi ad acqua si faceva fluire l’acqua da un contenitore all’altro, finchè finiva. E una volta finito si diceva: «Ora è sera» oppure: «Ora è pomeriggio». Un tempo non esisteva la nozione di tempo come quella che abbiamo oggi.

©ReysiKamhi

Poi c’erano gli orologi a cucù…

Sì, il loro funzionamento è curioso. L’orologio a cucù suona all’inizio di ogni ora. Alle 12 canta dodici volte; alla mezza canta una volta sola. Secondo me dovrebbe essercene uno in ogni casa, ai bambini piace molto.

Le è mai capitato di riparare orologi di grandi dimensioni, come quelli che ci sono sulle torri?

Certo. I grandi orologi vengono ripuliti, vi viene dato l’olio. Lo facciamo sul posto. Ho riparato l’orologio del Museo del Mare di Besiktaş. C’era anche l’orologio che Atatürk aveva regalato all’Ammiraglio del tempo, abbiamo sistemato anche quello. E abbiamo aggiustato anche l’orologio di Büyükada.

Quali tipi di problemi possono avere gli orologi? Quanto tempo si impiega ad aggiustarne uno?

Esistono diversi problemi. Si possono rompere le spirali interne di metallo, si può logorare il quadrante. È necessario ripulirli e passare dell’olio. La quantità di tempo può variare a seconda del guasto, solitamente ci si impiega una settimana.

Qui fanno solo riparazioni?

Alcuni ci portano i loro orologi perché vengano rivenduti. Quando riusciamo a trovare degli acquirenti, tornano a prendersi il ricavato.

Ha mai disegnato un orologio?

Sì, una volta. L’avevo progettato con un vetro a specchio e avevo disegnato i numeri. Non ha avuto un gran successo. Ne avevo 15-20 pezzi, li ho dati agli amici e ai vicini di casa.

Com’è il lavoro di orologiaio?

Quando si riesce a far funzionare un orologio è un po’ come dargli un’anima. Si prova un vero piacere. Non mi annoio mai del mio lavoro, lo faccio con entusiasmo. Ovviamente i soldi servono e lavoriamo per guadagnare, ma quando lo si fa con entusiasmo entra in gioco la pazienza. Quando si ha pazienza si trovano sempre soluzioni, se non oggi, domani.

Molti degli orologi che lei aggiusta hanno anche un forte valore personale; di solito le vengono affidati anche oggetti densi di ricordi, non è così?

Certo, ho clienti disposti a spendere venticinque lire per un orologio che ne vale cinque, semplicemente perché ha un forte valore personale. Per questo è importante la fiducia. Quando mi affidano un orologio d’oro, per esempio, tolgo subito il cinturino e lo consegno al proprietario in modo che si rassicuri. Questo ovviamente non succede con i clienti di lunga data, quelli ovviamente si fidano. Ogni orologiaio impara cose nuove da ogni orologio. Chiunque si dica un esperto è un bugiardo. [1/5 continua…]

trad. di E. Pergolizzi

***

Con L’orologiaio comincia la pubblicazione di una serie di cinque storie tratte dal volume Kolay Gelsin. Meslekler ve Mekânlar di Rita Ender (İletişim, 2015, 3° ediz. 2017).

Si ringraziano: l’autrice Rita Ender, la traduttrice Emanuela Pergolizzi e la casa editrice İletişim.

Fotografie di Berge Arabian
Illustrazioni di Reysi Kamhi

©Diritti riservati per la traduzione italiana, Kaleydoskop, 2017 (su concessione di İletişim, Istanbul).

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