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Rischi del ritiro dalla Convenzione di Istanbul: intervista a Mor Çatı

in Società

Il 20 marzo 2021, il Presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdoğan ha annunciato l’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne. Riproponiamo qui l’articolo uscito sul portale Geopolitica.info a firma Thomas Bastianelli e Jessica Pulsone in cui, dopo una nota introduttiva di Carlotta De Sanctis, è stata riportata la testimonianza di Elif Ege, portavoce della fondazione Mor Çatı, sui possibili rischi di questa decisione.


“İstanbul Sözleşmesi”, gli obiettivi della Convenzione

La Convenzione di Istanbul, termine abbreviato dell’accordo siglato come “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante nella protezione delle donne da qualsiasi forma di violenza. Dopo la firma nel 2011 da parte di 32 paesi, il trattato è stato ratificato negli anni da differenti Stati (primo fra tutti la Turchia passata alla ratifica della Convenzione nel 2012 e alla sua applicazione nel 2014), che conseguentemente hanno accettato i vincoli giuridici delle sue disposizioni. Tali disposizioni muovono da una profonda riflessione nata in seno alle lotte e alle teorie dei movimenti femministi e arrivano a considerare l’atto violento, che sia esso di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, non solo nella sua specificità ma all’interno di un quadro più ampio. Conosciuta in Turchia con il termine “İstanbul Sözleşmesi”, la Convenzione di Istanbul si pone infatti come obiettivo quello di considerare in maniera più generale sia le pratiche di prevenzione della violenza di genere che quelle di sostegno e protezione delle donne, perseguendo i colpevoli di tali crimini e adottando politiche integrate che comprendono, tra le altre, l’istituzione di centri antiviolenza e di sostegno che lavorano quotidianamente alla salvaguardia delle donne che subiscono abusi e delle loro famiglie.

L’attuale discussione, che tuttavia non comprende solamente la Turchia ma anche diversi Stati europei che si sono limitati alla sola firma dell’accordo senza una sua successiva ratifica (come ad esempio Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria, Lituania, Lettonia, Slovacchia e Regno Unito) o che stanno decidendo di uscire dalla Convenzione (come la Polonia), riguarda in particolar modo l’articolo 4, secondo il quale l’attuazione delle disposizioni della Convenzione di Istanbul deve essere garantita senza alcuna discriminazione di nascita, orientamento sessuale, identità di genere, origine nazionale o sociale, di religione, stato di salute, disabilità, stato civile, di immigrato, rifugiato o qualsiasi altro status. È stata in maniera specifica questa norma e il dibattito sulla sua applicazione che in Turchia ha portato il governo a definire la Convenzione come “contraria all’istituzione della famiglia” e come strumento per “incoraggiare l’omosessualità”. Seguendo questa linea di dibattito le autorità turche, dopo la decisione presidenziale dell’uscita dall’accordo che tuttavia e in maniera ancora più allarmante non è passata a voto parlamentare, hanno affermato che la Convenzione, originariamente intenta a promuovere i diritti delle donne, è stata ritirata in quanto “manipolata da un gruppo di persone con l’obiettivo di normalizzare l’omosessualità, cosa incompatibile con i valori della società e della famiglia turca”.

A questa decisione si sono opposti strenuamente i movimenti femministi, queer, le varie associazioni per la lotta contro i femminicidi, i comitati LGBTI+, e numerosissime persone e organizzazioni che da mesi scendono in strada per protestare contro le minacce governative sul ritiro dalla Convenzione e per difendere la legge n. 6284, emanata in conformità agli obblighi per i firmatari della Convenzione di Istanbul di combattere e prevenire la violenza contro le donne e fornire misure di protezione e prevenzione per assistere donne, bambini e persone LGBTI+ dalla violenza e dalle discriminazioni. In un paese in cui i dati dei femminicidi assumono numeri catastrofici, con cifre che si aggirano a oltre 300 omicidi accertati ogni anno, e in cui le dichiarazioni del governo su un’adeguata adozione di misure indipendenti dalla Convenzione mancano di una comprensibile fiducia, rimane forte il grido dei movimenti che si battono per la difesa dei diritti umani e che negli anni, con una profonda competenza teorica, ci hanno insegnato che la lotta contro le discriminazioni porta alla libertà di tutte e di tutti.

Intervista a Elif Ege, portavoce di Mor Çatı Women’s Shelter Foundation

Rispetto alla condizione femminile in Turchia, la Convenzione ha effettivamente contribuito a ridurre i casi di violenza e ad appianare la disparità di genere? Che impatto avrà il ritiro dalla Convenzione sulla vita delle donne turche?

Vorremmo iniziare dandovi maggiori informazioni sulla nostra Fondazione. Mor Çatı è una fondazione trentennale creata da femministe per combattere la violenza contro le donne. Fin dalla nostra fondazione, lottiamo contro la violenza maschile costruendo la solidarietà con le donne che subiscono violenza, poiché forniamo supporto sociale, psicologico e legale nel nostro centro di solidarietà e nel nostro rifugio (che è l’unico rifugio indipendente gestito da femministe). La più importante fonte di informazioni a Mor Çatı è la solidarietà che costruiamo con le donne che cercano di sfuggire alla violenza. Le informazioni distillate attraverso le esperienze che le donne condividono con noi, nelle nostre sessioni nel centro di solidarietà e nel rifugio, ci permettono sia di monitorare l’attuazione dei meccanismi contro la violenza maschile sia di fare raccomandazioni politiche.

Per quanto riguarda la situazione dei diritti delle donne in Turchia, le organizzazioni femminili indipendenti hanno sentito chiaramente la mancanza di volontà politica per l’eliminazione della Violenza Contro le Donne (VAW nell’acronimo inglese) e la disuguaglianza di genere nei cambiamenti legali che sono stati apportati dal 2002. Tuttavia, in particolare dal 2010, i funzionari pubblici e i politici hanno iniziato a esprimere apertamente le loro opinioni riguardo l’ineguaglianza fra uomo e donna. Nel 2011, il Ministero delle Donne e degli Affari Familiari è stato rinominato come Ministero della Famiglia e delle Politiche Sociali cancellando apertamente la parola “Donne”. Non era solo un gesto simbolico, ma anche un solido segnale che il governo dava la priorità alle politiche orientate alla famiglia. Significava risorse insufficienti o limitate destinate alle questioni femminili, mentre le donne sono trattate pubblicamente come cittadini non uguali, confinate all’interno della famiglia, viste solo come “madri”. Le politiche sociali riguardanti le donne erano ridotte a “assistenzialismo” piuttosto che a “diritti”. Alle donne non veniva fornito alcun sostegno sociale in caso di violenza maschile, il che significava che erano costrette a rimanere entro i confini delle loro famiglie. La versione più concreta di questo approccio è stata testimoniata nel maggio 2016 con il “Rapporto della Commissione Divorzio”, come è noto al pubblico. È stato criticato duramente dalle organizzazioni femminili indipendenti, poiché questo rapporto includeva l’implementazione della “conciliazione” nei casi di divorzio, valorizzava “l’unità della famiglia” nei casi di violenza sulle donne, mirava ad implementare il criterio del “consenso” negli atti sessuali con i minori e nei possibili matrimoni nei casi di abuso sessuale tra l’autore e la vittima, che per implicazione salva l’autore dalla punizione legale. I crimini d’odio nei confronti dei soggetti LGBTI+ sono aumentati e incoraggiati dai livelli più alti dello Stato. Il diritto all’aborto, considerato legale fino alla ventesima settimana di gravidanza, è ora praticamente proibito. La lotta decennale delle organizzazioni femminili indipendenti è stata indebolita dalla chiusura di numerosi centri e dalla criminalizzazione dell’attivismo femminile da parte dei funzionari statali, che potrebbe diventare sempre più comune con la nuova legge sulle ONG che minaccia l’intera società civile. Il ritiro dalla Convenzione di Istanbul è un risultato diretto di questi attacchi crescenti contro i diritti delle donne.

Sulla base della conoscenza e dell’esperienza che otteniamo dalle donne che ci raggiungono, sappiamo che il tentativo di ritiro dalla Convenzione di Istanbul avrà risultati concreti diretti nella vita delle donne. Prima di tutto, ci sono alcuni diritti garantiti dalla Convenzione che non sono assicurati dalle nostre leggi interne (tra cui il divieto di riconciliazione in caso di violenza, il requisito di una “prova” per concedere misure protettive, la protezione delle donne migranti che non sono cittadine turche, l’assistenza legale gratuita dell’Ordine degli avvocati per le donne che sfuggono alla violenza). Siamo preoccupati che il ritiro comporti immediatamente la revoca di questi diritti. Inoltre, e ancora più importante, sappiamo che questo tentativo di ritiro è una diretta continuazione dello spostamento esistente nella politica attuale in Turchia verso politiche orientate alla famiglia e all’eliminazione della disuguaglianza di genere. Finora, anche prima del tentativo di ritiro, abbiamo osservato gli effetti di questo cambiamento attraverso le cattive pratiche esercitate dalle istituzioni come le forze di polizia, i tribunali familiari, i procuratori, i Centri di Monitoraggio della Prevenzione della Violenza (ŞÖNİM), che sono tenuti a sostenere le donne che sfuggono alla violenza. Abbiamo visto e denunciato che vengono imposti criteri illegali alle donne che chiedono di stare nei rifugi; ci sono prevalenti comportamenti deterrenti da parte delle forze dell’ordine nei confronti delle donne che fanno richiesta di rifugi e ordini di protezione; i casi di divorzio richiedono almeno due anni presso i tribunali di famiglia; c’è un problema prevalente di impunità presso i tribunali penali. Problemi come questi e molti altri sono stati perpetuati con l’idea che le donne appartengono alle famiglie e non dovrebbero perseguire una vita libera e uguale senza alcuna forma di violenza al di fuori delle famiglie. Le osservazioni misogine e sessiste degli alti funzionari contro l’uguaglianza di genere hanno costituito la base per gli attacchi contro la Convenzione di Istanbul e la sua idea principale che la violenza maschile contro le donne deriva dalla disuguaglianza di genere. Ora sappiamo che questa mentalità che si oppone all’uguaglianza di genere penetrerà sempre di più in ogni istituzione e renderà più difficile per le donne poter sfuggire alla violenza. Considerando che almeno una donna viene uccisa ogni giorno a causa della violenza maschile, questo avrà effetti dannosi per le donne.

Il vicepresidente turco Fuat Oktay, anche lui esponente dell’Akp di Erdoğan, ha giustificato la scelta del Presidente affermando che la difesa della dignità delle donne turche non ha bisogno di imitare un modello esterno, poiché la soluzione è nelle tradizioni turche. È possibile interpretare il ritiro dalla Convenzione come una mossa attuata da Erdoğan per ottenere consenso dalla fetta di elettorato più conservatrice? 

Sì, crediamo sia possibile interpretare la mossa in questo senso. Gli attacchi contro la Convenzione di Istanbul spesso stigmatizzano la stessa come “inautentica” ed “estranea ai nostri valori”. Tuttavia, sappiamo che la questione di fondo è l’attacco contro l’uguaglianza di genere. La Convenzione di Istanbul, che è un trattato con cui la Turchia si vanta da anni di essere stato il primo paese a firmare e ratificare, descrive come combattere efficacemente la violenza contro le donne e spiega i suoi principi fondamentali in un linguaggio semplice. La ragione per cui il testo della Convenzione è così inclusivo, chiaro e dettagliato è che è stato scritto da donne per le donne. Il testo si basa sulle esperienze delle femministe che da anni combattono la violenza di genere, testimoniando le esperienze dirette e imparando da esse, vedendo le diverse manifestazioni della violenza nella vita di ogni donna, e gli ostacoli che queste affrontano quando cercano di scappare alla violenza. Pertanto, non è possibile etichettare come “straniera” una Convenzione scritta con il contributo di donne della Turchia.

A prescindere da questioni politiche, la violenza contro le donne viene riconosciuta come problema dalla società civile o questa consapevolezza appartiene solamente agli ambienti degli attivisti? Come e quanto viene affrontato questo tema dall’opinione pubblica e dai media?

La violenza contro le donne è un problema diffuso e viene riconosciuto come tale da segmenti molto eterogenei della società turca. Spesso i media riportano con indignazione i fatti di cronaca che riguardano casi di violenza contro le donne. La questione non è affrontata solamente da giornalisti di sinistra, ma anche da gruppi conservatori e islamisti. Numerosi sondaggi rivelano che l’opinione pubblica ritenga la VAW una questione importante e sostenga la Convenzione di Istanbul. Tuttavia, sembra esserci un’incapacità nel comprendere la stretta relazione tra la violenza contro le donne e l’uguaglianza di genere. Talora, l’opinione pubblica ha la tendenza a individuare nella povertà, nella mancanza di istruzione o in altre questioni socioeconomiche, le uniche ragioni dietro la violenza. Eppure, sappiamo che la violenza maschile è radicata nelle disuguaglianze esistenti tra uomini e donne, che devono essere smantellate promuovendo la solidarietà delle donne.

Riguardo alle recenti proteste, potreste spiegarci come siete organizzate e se c’è una larga partecipazione maschile? Riguardo la risposta del governo, avete notato una maggiore repressione rispetto ad altre manifestazioni?

C’è un movimento femminista molto forte in Turchia. A partire dagli anni ’80, si è sviluppato un attivismo che si è organizzato intorno a molte altre questioni femminili. Dopo il decreto del Presidente Erdoğan a mezzanotte, con il quale ha smantellato la Convenzione, in un paio d’ore le donne di diverse città e paesi della Turchia si sono organizzate per scendere in piazza per manifestare la loro opposizione. Dato che gli attacchi contro i diritti delle donne e l’uguaglianza sono in corso da diverso tempo, noi come movimento femminista abbiamo lavorato senza sosta per coordinare gli attivisti e difenderci contro questi attacchi istituzionali. In questo senso, eravamo preparate, e abbiamo usato questo a nostro vantaggio per organizzarci rapidamente. Da sabato 20 marzo ogni giorno c’è una protesta in diversi quartieri di Istanbul e in moltissime altre città. C’è un sostegno diffuso anche tra gli uomini. Tuttavia, in Turchia, abbiamo il principio di avere le donne al centro delle nostre proteste. Incoraggiamo gli uomini ad essere nostri sostenitori aprendo lo spazio solo alle donne. E per quanto riguarda la repressione da parte delle forze dell’ordine, per ora siamo riuscite a protestare senza gravi interventi della polizia ma non siamo sicure, ovviamente, che continuerà così. Recentemente, delle donne sono state arrestate per aver partecipato alla Notte Femminista dell’8 marzo, Giornata Internazionale della Donna, il che dimostra la risposta del governo alle donne che scendono in piazza e chiedono i loro diritti.


Immagine di copertina: Beyza Taşer

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