Haluk è un chirurgo oftalmico in pensione. Per tutta la sua carriera ha vissuto nel trambusto di Ankara, ma per il suo buen retiro non aveva dubbi: ciò che più gli stava a cuore era investire parte dei propri risparmi per immergersi completamente nella natura. La Turchia offre non pochi contesti in cui la vita bucolica la fa da padrona, dove l’antropizzazione è pressoché limitata, il suolo sa essere generosamente fertile, in cui gli stili di vita risultano lenti e genuini, nel pieno rispetto di equilibri atavici e senso di comunità collettiva. Haluk ha comprato un terreno a Suçıkan, che già nella toponomastica denota una scelta mirata: “lì dove emergono le acque”. Suçıkan è una frazione del comune di Karacahisar, 672 abitanti in tutto a circa 20 km dalla città di Milas. «Un paradiso in terra» lo definisce Haluk, «con una lista infinita di specie endemiche che amo catalogare». Suçıkan e Karacahisar sono inserite nell’entroterra di Milas e Muğla, due aree dell’Anatolia sud-occidentale che vivono all’ombra delle più note località balneari di Bodrum e Marmaris, sull’Egeo. Per “fortuna geografica” e per caratteristiche ambientali ne sono in un certo senso il prolungamento, ma purtroppo dagli anni ‘80 questo territorio è stato sacrificato a tre impianti a carbone con relative miniere.
«Qui ho messo su un vigneto, produco diversi tipi di vino» continua Haluk, «ma faccio sempre più fatica a gestirlo; dal mio terreno i camini della centrale non si vedono, ma le conseguenze sono letali: l’aria è pregna di sostanze nocive, così come il fiume che scorre a Suçıkan. Le piogge acide e l’acqua contaminata stanno impoverendo le capacità del terreno».
Negli ultimi cinque anni, la Turchia ha intrapreso una scellerata corsa al carbone, in nome di una indipendenza energetica autarchica e in controtendenza con i proclami della comunità scientifica. L’agenda energetica turca pare tutta proiettata allo sfruttamento della fonte fossile maggiormente presente sul territorio nazionale: la lignite, tra le tipologie di carbone peggiori in quanto a qualità, caratteristiche e potere calorifico, le cui risorse accertate ammontano a ben 15,6 miliardi di tonnellate.
Il 2014 fu inaugurato dal ministro dell’Energia come “l’anno del carbone”; è l’anno in cui si sono messi in moto tutta una serie di ingranaggi politico-amministrativi tesi a supportare ad ogni costo l’incremento della produzione dell’energia elettrica attraverso la combustione della lignite. Ciò principalmente favorendo le società carbonifere nazionali attraverso privatizzazioni, deroghe e sospensioni sistematiche delle normative ambientali nazionali ed internazionali. In barba all’Accordo di Parigi, firmato anche dal governo di Ankara ma ad oggi non ancora ratificato.
Nell’area di Muğla sono presenti ben tre centrali a carbone: Yeniköy, Kemerköy e Yatağan, sfamate da due miniere la cui grandezza – comprendendo la pianificata espansione – arriverebbe a misurare ben 44mila ettari (ossia circa 69mila campi di calcio). Da queste parti i villaggi non superano i 3mila abitanti, comunità la cui età media è di circa 50 anni, dove non mancano sacche di resistenza ma l’abnegazione e la rassegnazione diventano sentimenti quotidiani. Molti residenti dell’area sono ammalati di tumori di tutti i tipi, e dall’apertura degli impianti le percentuali di ricoveri ospedalieri e di problemi di natura respiratoria e cardiovascolare si sono impennate in maniera preoccupante. Inoltre, la ricca terra sul “parallelo del Mare Nostrum” non dà più i frutti di una volta; molte persone intervistate non esitano a parlare di vero e proprio “genocidio”: «ci affamano per farci abbandonare queste terre, e lasciarle in pasto alla miniera», spiega laconico Burhan, vicino di casa di Haluk che a Suçıkan ha ereditato il terreno del padre. Burhan possiede un uliveto di memecik, una pregiata qualità di olive tipica dell’area; Burhan ama tenerle in barattoli, immerse nel loro olio con l’aggiunta di una fettina di limone. Ad ogni oliva incide un segno con il coltello, garantendo loro uno speciale retrogusto di agrumi. «Eppure le memecik non fanno più presa in queste terre», continua, «ho dovuto sostituire gli alberi di memecik con le olive gemlik [altra qualità turca, dell’omonima area nei pressi di Bursa, ndr]».
Il prezzo da pagare per una scelta da “secolo scorso” si distribuisce a ventaglio su numerosi aspetti socio-economici, culturali, ambientali e di salute. Per estrarre la lignite si necessita l’ampliamento delle miniere di carbone, e siccome il minerale è presente nel sottosuolo per sole poche decine di metri in profondità, l’espansione necessita di una sempre crescente orizzontalità. A tale scopo, il governo di Ankara non pare si stia facendo particolari scrupoli a sacrificare aree di interesse archeologico (siamo nell’antica Caria, dove sono presenti circa 30 siti archeologici, tra cui i più noti di Stratonikeia e Lagina), ecosistemi e ruralità, con numerosi villaggi già spariti dalle mappe geografiche e tanti altri in attesa di subire la stessa sorte.
L’associazione italiana Re:Common ha seguito le dinamiche legate al carbone turco concentrandosi su quest’area in particolare. L’interesse per le centrali di Milas e Muğla è legato principalmente al ruolo giocato dalla banca italiana UniCredit nel processo di privatizzazione dei tre impianti. I fondi sono infatti arrivati da istituti bancari nazionali e stranieri, e UniCredit si fregia del primato di ente finanziario che ha elargito più fondi al di là dei confini turchi.
Il lavoro di Re:Common è diventato un rapporto scaricabile gratuitamente qui e un video, realizzato con la collaborazione del regista turco Imre Azem dove si approfondiscono sia le dinamiche politico-finanziarie che le tante storie raccolte sul territorio.
Articolo e foto di Dino Buonaiuto / Re:Common
Pubblicato originariamente il 14 agosto 2019