In occasione del dodicesimo anniversario della morte del giornalista armeno Hrant Dink riproponiamo un testo della scrittrice Aslı Erdoğan che lo ricorda.
Esco per le strade dopo che la folla si è dispersa, nel “buio dolente” della sera… In città è stata tagliata l’elettricità, cammino lungo strade che ho l’impressione di non aver mai visto prima. Strade, vie, parallele, passaggi laterali… Incroci che promettono un nuovo inizio, uno smarrimento completamente diverso, una notte altra… La solitudine trasforma tutte le voci, si mescola a sé, risuona nel più intimo, più a lungo, più in profondità. Come se in mezzo a tutte le voci del mondo udissi una voce rimasta in silenzio da tempo, la adottassi, e in sua compagnia attraversassi strade che ormai non esistono più…
Cammino, cammino, verso la vita, torno indietro…
Una notte di scrittura, notte silenziosa di un dolore personale che non vuole incontrarsi con le parole… Due fotografie. Una scattata nella primavera del 2006 presso il giornale “Agos”. Hrant mi aveva ceduto la sua scrivania, è in piedi al mio fianco, un bicchiere di tè bevuto a metà. Due fotografie che hanno accompagnato l’inverno più lungo della mia vita, un viaggio invernale non ancora concluso.
Una notte di scrittura… pile di giornali, libri a portata di mano, frasi sottolineate… Un oceano di posacenere. L’odore di caffè, antidolorifici… Repliche, risposte, discussioni che continuano a ronzarmi in testa… Vuoti fogli bianchi avvolti in un silenzio tombale. Esattamente dieci anni fa, la madre di un condannato con la quale ho potuto parlare grazie a un interprete curdo, puntando gli occhi dritti nei miei aveva detto «Prima di separarci, dimmi qualcosa che mi dia speranza, figliola». C’era tutto nel suo sguardo, offesa e comprensione, lo scetticismo proprio delle persone ingannate decine di volte dalla volontà di credere, amicizia, affetto, tutto tranne speranza… Sembrava mi guardasse così come mi guardano i vuoti fogli bianchi, come guardasse uno specchio…
Il (vecchio) Palazzo di Giustizia di Beşiktaş, nella mia memoria dai colori sbiaditi, carico di ricordi densi e silenziosi come pietre, uno più pesante dell’altro. Le prime ore del mattino. Molto prima del’udienza tre donne sole, non riescono a trovare né il luogo della manifestazione, né l’entrata del Palazzo di Giustizia, ferme a un incrocio, l’una a fianco all’altra, indecise sulla strada da prendere. (La prima udienza del processo che in otto anni aveva cambiato sei procuratori, fissato solo adesso, otto anni dopo la prima decisione di arresto della polizia.) Un uomo appariscente in giacca e cravatta ci passa accanto emanando una densa nuvola di dopobarba. Nota le tre donne, forse il loro tragico silenzio. Gli cade l’occhio sulla piccola fotografia che portiamo su una spilla appuntata sul colletto… «Chi è?», chiede con una voce piena, «Quell’armeno ammazzato?» Con la mia solita rigorosità, prima ancora che mi venga a mente di interrogare le sue intenzioni mi metto a spiegare, «Sì, il giornalista Hrant Dink…» Non ascolta, non rallenta neppure, dopo qualche metro si volta, lancia due parole dagli angoli della bocca. «Ben fatto!» Continua per la sua strada con passi duri che risuonano tutt’intorno, come se stesse combattendo eroicamente contro un nemico invisibile… Noi tre rimaniamo impietrite in silenzio, ci tremano le labbra. Dopo un po’, la “più esperta” riesce a parlare: «Dev’essere un poliziotto in borghese!» Siamo sinceramente spaesate, riusciamo a trovare consolazione nel fatto che questa frase, appiccicatasi addosso come uno sputo catarroso sia un replica inculcata dal governo, la battuta di un copione. In silenzio, vergognandoci, cerchiamo la folla, i nostri amici, gli amici di Hrant, questa volta li troviamo.
I ricordi a volte chiedono di essere raccontati, ripetuti, a volte invece, il silenzio duro come pietra… All’entrata di un tribunale tre donne fianco a fianco, hanno portato quel silenzio per anni, come si porta una crimine compiuto insieme…. Otto anni fa, la sera di un altro 19 gennaio, la sera di un giorno in cui migliaia di persone avevano camminato per ore, in silenzio, fianco a fianco, fino al cimitero in un profondo dolore, sotto un sole invernale che sembrava un miracolo, avevo scritto “abbiamo lasciato dietro di noi una profonda traccia invisibile”. Camminiamo, continuiamo a camminare e la traccia che lasciamo, non è affatto invisibile!
Dopo una settimana di minacce, incursioni al giornale, insulti, degli «Oh ecco, anche voi “con Charlie”», quest’ottimismo, questa speranza… Serve un sole invernale, in quel giorno di funerale, un altro miracoloso sole invernale che splenda ancora, che ci scaldi tanto da bastarci per tutti gli inverni a venire…
Brano tratto da Neppure il silenzio è più tuo di Aslı Erdoğan
trad. Giulia Ansaldo
Casa editrice Garzanti, Collana La Biblioteca della Spiga, 2017, pp.144
ISBN 9788811675808, €15
Diritti riservati ©Aslı Erdoğan, 2016 ©2017, Garzanti S.r.l., Milano Gruppo Editoriale Mauro Spagnol
Alcune immagini scattate durante la commemorazione di quest’anno.
Foto di ©Güler Emektar