Turchia, cultura e società

Rifugiati siriani in Turchia nell’era Covid

in Società

Intervista di Cosimo Pica a Didem Danış, docente del dipartimento di sociologia dell’Università Galatasaray, e presidente dell’associazione GAR – Göç Araştırmaları Derneği (Associazione di ricerca sulle migrazioni).


Innanzitutto, visti i tempi che viviamo, volevo chiederti qual è stato l’impatto della pandemia sulla popolazione migrante.

C’è stato un netto aumento dell’impoverimento e della disoccupazione in conseguenza della pandemia. Centinaia di migliaia di migranti impiegati in lavori a nero e precari hanno perso il proprio lavoro. Anche per quanto riguarda il diritto alla salute, seppure garantito ai rifugiati siriani, molti avevano paura di andare in ospedale per mancanza di informazioni sui loro diritti. Problema vissuto e sentito ancor di più dalle migliaia di migranti sans papiers che vivevano nel terrore di recarsi in ospedale per la mancanza di documenti, motivo per cui ad oggi risulta anche difficile dire quanti di loro in realtà abbiano contratto il virus.

La Turchia sta vivendo una crisi sociale ed economica, aggravata dagli effetti della pandemia. Tale situazione negli ultimi tempi è andata di pari passo con il riacutizzarsi di sentimenti xenofobi soprattutto verso i rifugiati siriani.

Recentemente, a causa della crisi economica, purtroppo, tra la gente è aumentata una certa pulsione xenofoba. Ci sono stati anche casi di omicidi di siriani da parte di cittadini turchi. Avvenimenti tragici che non possiano trattare come isolati perché si inseriscono in un contesto più ampio che vede sempre più persone pensare che il governo dia diritti ed opportunità ai rifugiati siriani e non tenga conto delle esigenze dei cittadini turchi in difficoltà. In realtà ciò mostra una postura razzista perché molte persone non vogliono che i siriani abbiano pari diritti, quali accesso all’istruzione, alla sanità e al lavoro.

In una prospettiva comparativa la situazione tra Turchia ed Europa è diversa perché, ad esempio, qui non esistono partiti come la Lega, Alba Dorata o AfD, che usano la retorica razzista nei confronti dei migranti per aumentare i propri consensi. Nonostante ciò è necessario sottolineare come l’opposizione turca non di rado attacchi il governo sulle politiche di accoglienza dei rifugiati siriani accusandolo di essere il responsabile dell’arrivo di così tante persone nel paese. Ultimamente da un punto di vista elettorale la tematica dei rifugiati siriani ha assunto un peso maggiore e assistiamo alla tendenza ad una crescente politicizzazione dell’argomento.

Nel clima di crescente razzismo esiste un tessuto associativo della cosiddetta società civile che riesce a porre un argine e magari incidere nel dibattito pubblico e nelle scelte politiche in materia di immigrazione?

Oggi possiamo dire che la società civile in generale non abbia un peso molto importante anche a causa dell’enorme repressione che, soprattutto negli ultimi 5 anni, ha fortemente limitato la libertà di espressione e di organizzazione. Nonostante in Turchia ci sia un crescente numero di associazioni impegnate nel supporto ai migranti e rifugiati esse si limitano essenzialmente all’assistenza umanitaria. È molto raro invece trovare associazioni che fanno un lavoro di advocacy per reclamare i diritti dei migranti e dei rifugiati.

Inoltre ultimamente sono aumentate le associazioni pro governative impegnate nell’assistenza ai migranti, anche in virtù dell’importante mole di aiuti economici che arrivano a livello internazionale.

In tal senso purtroppo il peso della società civile non è particolarmente rilevante in quanto non riesce ad incidere nel dibattito pubblico e nelle politiche in materia di immigrazione.

Nei tuoi recenti lavori hai affrontato la questione di genere all’interno della comunità siriana. Paradossalmente in alcuni casi il percorso migratorio ha rappresentato una possibilità di uscire dal mondo esclusivamente domestico per necessità lavorative e di sussistenza, ma restano profonde disuguaglianze sia sui posti di lavoro che a casa. Inoltre nonostante l’accesso al lavoro, seppur spesso precario, c’è una difficoltà di creare legami al di fuori della comunità di appartenenza. In tal senso ci sono esempi di iniziative che provino a rompere questo muro?

Purtroppo ovunque esiste la disuguaglianza di genere, anche all’interno delle comunità migranti come quella siriana. Per comprendere il quadro sociale è bene ricordare come circa il 40% delle donne siriane in Turchia non siano mai andate a scuola, né qui né in patria. Abbiamo condotto una ricerca sulle condizioni lavorative delle rifugiate siriane in Turchia e abbiamo constatato che la maggior parte delle donne solo qui ha iniziato a svolgere un’attività lavorativa, per questioni di necessità economiche che prima non esistevano in Siria. Tale circostanza ha in effetti provocato un cambiamento all’interno delle loro vite e delle dinamiche familiari, che però nella maggioranza dei casi non ha messo in discussione un certo modello patriarcale. Inoltre è difficile parlare di una possibile emancipazione tramite il lavoro anche perché si tratta spesso di impieghi in nero ed in condizioni precarie.

All’interno di questo quadro però credo che un aspetto di novità e di grande interesse è rappresentato dalle ragazze siriane, dalle nuove generazione. Registriamo un importante aumento di ragazze siriane iscritte nei licei e nelle università. Inoltre tra la popolazione rifugiata anche nelle scuole primarie e secondarie il numero di studentesse è maggiore di quello degli studenti.

Questo rappresenta una speranza per il futuro anche per quanto riguarda la maggiore interazione tra le donne rifugiate e la popolazione locale. In tal senso negli ultimi anni diverse associazioni hanno provato a sperimentare pratiche di interazione e condivisione. Ad esempio, a Gaziantep, importante centro industriale e commerciale nel sud della Turchia con una rilevante presenza di rifugiati siriani, c’è un’associazione, Kırkayak, che organizza attività di condivisione tra donne siriane e turche, soprattutto attraverso la cucina. Iniziative simili ci sono anche ad Istanbul ed in altri grandi centri urbani. Sono pratiche di resilienza importanti ma purtroppo non ancora sufficienti a superare i tanti ostacoli verso una reale inclusione. Continua ad essere in molti casi invalicabile la barriera linguistica e sociale, in quanto come detto molte rifugiate siriane sono analfabete e vivono per la maggior parte del tempo a casa senza opportunità di avere interazione con l’esterno, riuscendo ad istaurare legami essenzialmente intracomunitari. [Cosimo Pica]

 

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