Prima dello scoppio della pandemia, la rinnovata tensione creatasi al confine con la Grecia, dove in pochi giorni si erano riversate migliaia di persone in seguito alla notizia che il governo turco avrebbe aperto le frontiere, aveva riacceso la luce sulla situazione dei migranti in Turchia, dopo un periodo di sostanziale oblio nell’opinione pubblica europea. Ma con l’emergenza sanitaria la disputa sorta attorno al confine, che aveva messo in discussione la sussistenza effettiva della dichiarazione congiunta UE-Turchia del 18 marzo 2016, e l’attenzione verso il destino delle persone rimaste bloccate nei campi informali sorti attorno a Pazarkule (nella provincia di Edirne) sono state relegate in secondo piano.
Circa cinquemila persone alla fine di marzo, nel pieno del diffondersi del virus, sono state deportate nei centri di diverse città lontane dal confine terrestre con la Grecia per trascorrere un periodo di quarantena di due settimane, al termine del quale sono state lasciate per strada senza alcun tipo di sostegno. Le difficoltà vissute da coloro che hanno provato ad attraversare il confine rappresentano l’apice della condizione di precarietà in cui versa una fetta importante delle comunità migranti in Turchia, ulteriormente aggravatasi con la pandemia.
Tra i più colpiti dagli effetti della crisi sono: i richiedenti asilo, i siriani aventi protezione temporanea e le persone senza documenti. Sommando queste tre categorie – anche se risulta sempre impossibile fare una stima precisa dei sans papiers – si tratta di una popolazione che varia tra i 4 e i 5 milioni di persone, di cui 3,6 milioni rappresentati da siriani, 1,5 milioni dei quali minori. Secondo alcuni studi sull’effetto dell’emergenza sanitaria proprio sulla comunità siriana e sui richiedenti asilo presenti in Turchia, il 70% ha perso il lavoro a causa della propagazione del virus (e delle conseguenti misure di contenimento), mentre addirittura l’80% ha grosse difficoltà nell’affrontare le spese quotidiane.
La situazione socio-economica di questa parte di popolazione risulta drammatica, nonostante l’aiuto offerto da diverse ONG e associazioni, nonché da alcuni programmi di sostegno rivolti ai siriani aventi protezione temporanea. Come ad esempio la cosiddetta “Rete di sicurezza sociale di emergenza” (ESSN), che fa parte del meccanismo dell’UE per i rifugiati in Turchia e prevede un trasferimento mensile di 100 TL (circa 13 euro) a persona tramite una scheda elettronica chiamata Kızılay Kart (distribuita su specifica richiesta della Mezzaluna Rossa).
La precarietà delle vite dei migranti più vulnerabili evidenzia la difficile sfida della loro inclusione sociale e lavorativa in Turchia. Nel quadro (da qualche anno non più roseo) dell’economia turca, il settore informale rappresenta ancora oggi una parte rilevante, con circa 9,5 milioni di persone che svolgono mansioni a nero. Di queste, circa 1,5 milioni sono migranti.
Se guardiamo i dati relativi ai siriani con protezione temporanea (sui quali sono presenti più studi e statistiche) si presume che una cifra variabile tra 500 mila e 1 milione di persone è impiegata nel settore informale, sottoposta a lunghi orari di lavoro, in condizioni malsane e non sicure. Una parte rilevante della popolazione siriana è occupata in lavori scarsamente qualificati nell’agricoltura stagionale, nei settori tessile, edile e manifatturiero. Con lo scoppio della pandemia questi settori sono stati tra i più colpiti e i lavoratori che non avevano nessun tipo di tutela e contratto sono rimasti a casa senza alcuna forma di garanzia per il presente ma soprattutto per il futuro. Le misure di contenimento della diffusione del virus non solo hanno paralizzato proprio settori quali quello tessile e quello edile, ma i limiti di spostamento tra le diverse province hanno avuto importanti ripercussioni anche nell’agricoltura, causando grandi difficoltà ai lavoratori stranieri e autoctoni impiegati nelle raccolte di frutta e verdura. Con la riapertura della circolazione interna i lavoratori stagionali stanno vivendo comunque un periodo particolarmente critico, con poche opportunità di impiego, salari sempre più bassi e un’accresciuta competizione per accaparrarsi le ridotte opportunità di essere assunti (sia in forma regolare che in nero).
Tale situazione, comune anche in altri ambiti dove è rilevante il peso del lavoro informale caratterizzato dalla piaga del caporalato, esacerba tensioni tra lavoratori precari migranti e autoctoni, causando in alcuni casi spiacevoli competizioni al ribasso. Questo quadro alimenta il risentimento dei lavoratori locali, che, tra le altre cose, spesso appartengono a minoranze, come quella curda e rom, fattore che complica ulteriormente lo scenario, collocandolo in un contesto di difficili relazioni interetniche.
Tale panorama si inserisce in un clima più generale di ostilità nei confronti soprattutto dei siriani, presi talvolta di mira in quanto rappresentano la comunità numericamente più importante. In un recente sondaggio dell’Istituto di ricerche politiche di Istanbul (İstanPol), alla domanda su quali fossero i principali problemi presenti oggi in Turchia il 58% degli intervistati ha risposto mettendo al primo posto la situazione economica nazionale e al secondo posto i siriani. Sempre secondo i sondaggi dello stesso istituto il 78% delle persone intervistate ha affermato che il governo pensa più ai siriani che ai cittadini turchi. Infine il 34,3% ha dichiarato che sarebbe disposto a partecipare a una manifestazione contro i siriani mentre il 42,6% darebbe il suo contributo a una raccolta firme sempre contro i siriani. Circostanza che rende evidente come, a nove anni dall’arrivo dei primi rifugiati siriani, nell’opinione pubblica turca sia in ascesa un sentimento di intolleranza e razzismo.
D’altronde anche il governo negli ultimi anni ha cambiato prospettiva, passando dalla politica delle porte aperte al progetto di reinsediare almeno 1 milione di siriani attualmente residenti in Turchia nei territori occupati nella Siria del nord (in seguito alle diverse operazioni militari succedutesi dal 2016 ad oggi contro l’amministrazione autonoma curda del Rojava). Questa misura si iscrive nel progetto dell’agognata safe zone, in realtà un vero e proprio protettorato turco nella zona ad ovest dell’Eufrate dal confine turco fino a Idlib. Alla base di tale strategia ci sono, come ovvio, precisi interessi geopolitici e militari, ma anche la consapevolezza del peso delle politiche di accoglienza in politica interna.
In questo quadro a tinte fosche, però, nel paese cresce anche la solidarietà, così come l’attenzione nei confronti dei migranti e dei rifugiati. Sono tantissime le associazioni attive sia nel fornire sostegno tramite la distribuzione di beni di prima necessità, sia nel garantire supporto psicologico e legale (nonché, prima della pandemia, nell’organizzare tantissime attività di socializzazione ed interazione culturale). Anche nel mondo accademico e dell’informazione c’è un’altra Turchia fatta di studiosi, ricercatori e giornalisti che smontano quotidianamente la retorica xenofoba e contribuiscono a diffondere analisi, statistiche e proposte per affrontare in modo adeguato la questione.
Lo scorso 20 giugno, giornata mondiale del rifugiato, diversi giornali (su tutti Evrensel che ha dedicato ampio spazio alla vicenda con inserti e approfondimenti) e varie associazioni hanno dato risalto alla tematica dei rifugiati, mettendo in primo piano la richiesta di eliminare le limitazioni geografiche alla convenzione di Ginevra e riconoscere lo status di rifugiato a tutte le persone che ne hanno diritto, indipendentemente dalla provenienza. La municipalità di Konak a Izmir ha fatto suo questo appello pubblicando un video a sostegno della proposta con il contributo di artisti, giornalisti, rappresentanti di associazioni di solidarietà ai migranti ed esponenti della società civile. Un segnale importante che fa il paio con la dichiarazione della DISK, uno dei più importanti sindacati del paese, che ha voluto celebrare la giornata mondiale del rifugiato con un significativo comunicato in cui afferma l’unità dei lavoratori contro ogni forma di razzismo e chiede condizioni di lavoro dignitose, salubri e sicure, nonché la garanzia di diritti sindacali e sociali per i troppi lavoratori migranti sfruttati. (Cosimo Pica)