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Terremoto / La regione colpita nell’anniversario del sisma

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Gaziantep / Kahramanmaraş / Antakya

Domenica 4 febbraio 2024, mancano meno di 48 ore all’anniversario del terremoto del 6 febbraio 2023 che ha devastato il sud-est del paese. Atterriamo all’aeroporto di Gaziantep, città situata vicino al confine con la Siria, conosciuta per la sua cucina e per la sua storia millenaria. Ci dirigiamo verso il centro della città, c’è un’atmosfera particolare, ci sono centinaia di bandiere appese per le strade. La città si sta preparando all’arrivo del Presidente Erdoğan, atteso in giornata per l’inaugurazione di un nuovo ospedale e per sostenere il candidato del suo partito alle elezioni municipali del 31 marzo. Sembra subito di essere catapultati indietro di un anno. Sisma e politica si mischiano nuovamente seppur con obiettivi diversi, ora il difficile compito del governo è dimostrare che le promesse e i proclami fatti un anno prima sono stati realizzati in vista delle elezioni.

Superato l’immenso numero di veicoli che attendono il Presidente, giungiamo nel centro storico di Gaziantep. Saltano subito all’occhio i lavori di ristrutturazione del castello che domina il centro della città, un importante simbolo storico, parzialmente distrutto con il sisma. Seppur secondo i dati ufficiali Gaziantep abbia subito 3919 vittime e visto il collasso di circa 4 mila edifici, la vita nel centro storico sembra essere ripresa. Accompagnati dal tipico odore di carbone e gas che vengono utilizzati per scaldarsi durante l’inverno, ci dirigiamo verso una lokanta, una classica osteria turca.

Nel pomeriggio iniziamo il nostro viaggio verso la città di Kahramanmaraş, epicentro del sisma del 2023. Uscendo da Gaziantep si notano enormi cartelloni pubblicitari che delineano i nuovi edifici che il governo sta costruendo, un filo rosso che accompagnerà tutto il nostro viaggio fino alla città di Antakya. Decidiamo di dirigerci verso la località in cui la terra subì un’enorme frattura, attraversando diversi villaggi.

Giunti a Tevekkeli, veniamo accolti da un abitante del villaggio che ci offre subito un tè. Inizia a raccontare di come la vita sia cambiata da quella terribile notte. La loro casa, seppur danneggiata, è ancora in piedi. Ora, come decine di migliaia di persone, lui e sua moglie vivono in un container di fianco alla loro abitazione. Ci tiene a specificare che il container lo ha comprato lui con i suoi soldi ma che il governo si sta dando molto da fare per aiutarli e ha ripristinato velocemente la strada che collega il villaggio con la città di Maraş e che era stata spaccata dal sisma.

Gaziantep Kahramanmaraş AntakyaLa frattura nella terra non è più visibile. Dopo una diatriba legale connessa allo spostamento dei terreni in seguito al sisma, il solco è stato colmato. Fin da subito diventa evidente come la vita nei villaggi, nonostante le enormi difficoltà, stia gradualmente ritornando alla normalità. Le vere difficoltà iniziano a palesarsi non appena entriamo in città.

Kahramanmaraş ci accoglie con un cielo grigio, nuvoloso, reso ancora più cupo da una coltre di polvere che avvolge i palazzi. Il rumore delle ruspe che continuano a scavare è lo stesso di un anno prima. C’è però un’importante differenza: all’incessante suono delle sirene delle ambulanze e delle luci blu, adesso il rumore di sottofondo che accompagna la città è quello di una lenta ripresa. Si sentono le persone, i bambini giocare, i venditori, e finanche il ritorno di un pizzico di frenesia cittadina che caratterizza la vitalità della Turchia.

L’aria è pesante da respirare, solamente dopo qualche ora che camminiamo per il centro ci accorgiamo che la quantità di polvere che entra nei polmoni è impressionante. Un recente report stilato dall’Associazione dei Medici della Turchia (TTB) ha evidenziato come il PM2.5 sia in media quattro volte superiore ai valori di riferimento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, aumentando notevolmente il rischio di tumori e malattie cardiovascolari e respiratorie.

Ci fermiamo a parlare con un uomo, proprietario di un ristorante, che si esprime senza mezzi termini contro il governo e contro le politiche di ricostruzione, facendo notare come la maggior parte degli edifici siano stati costruiti in luoghi non idonei. Camminando per la città ci fermiamo a mangiare un kebab in un container. Così la maggior parte dei negozi e delle attività stanno provando a ripartire nonostante la precarietà e l’incertezza restino imperanti.

La mattina del 6 ci mettiamo in viaggio verso la regione di Hatay, la più colpita dal sisma dove si sono registrate quasi la metà delle vittime. Lungo il tragitto il paesaggio è un misto di tende, container e nuovi palazzi in costruzione. Secondo i dati ufficiali forniti dal governo, ad oggi, in tutta la regione, sono state consegnate le chiavi di circa 46 mila abitazioni in un contesto in cui 3.5 milioni di persone sono rimaste colpite e circa 690 mila persone vivono ancora nei container.

Giunti ad Antakya ci si rende immediatamente conto di come il livello di devastazione che troviamo qui non abbia eguali. Ci addentriamo subito in quello che rimane, tra macerie e negozi che provano a ripartire, del centro storico di questa città considerata una delle culle del cristianesimo. Ad attenderci c’è Padre Francesco, un prete di origine indiana responsabile della chiesa cattolica locale. Ci mostra i danni subiti dalla chiesa, portandoci indietro alle drammatiche ore successive al terremoto. Saliamo sul tetto della chiesa dove sono presenti i resti del campanile. Quel punto, da cui si poteva scorgere il minareto oggi crollato della moschea di Sarīmiye, ha da sempre rappresentato il simbolo della multiculturalità e multi-religiosità della città.

Salutato Padre Francesco, continuiamo a camminare verso l’Uzun Çarsi, lo storico e caratteristico “mercato lungo” che taglia il centro storico. La vitalità è sorprendente, alcuni negozi hanno riaperto tra chi vende abbigliamento, chi sforna pane e chi serve humus e bakla, due tipiche ricette locali. Incontriamo un signore di mezza età, fa il medico di professione. Come la maggior parte delle persone che si incontrano, anche lui ha perso diversi membri della sua famiglia. Ha la passione per la storia e per l’archeologia e spende il suo tempo libero a documentare ciò che rimane dei vecchi resti romani sepolti dalle macerie. È preoccupato che non si presti sufficiente attenzione a salvaguardare un patrimonio storico inestimabile dicendo che non sono state predisposte particolari linee guida e che spesso tra le macerie che vengono portate via dall’incessante lavoro delle ruspe ci sono anche resti antichi.

Si fa sera e al contrario di un anno fa la temperatura è mite. Ci dirigiamo nuovamente verso il centro cittadino per partecipare alla marcia silenziosa organizzata in memoria delle vittime del sisma. Sono decine di migliaia le persone che si sono radunate nel centro della città per marciare silenziosamente. Siamo tutti e tutte avvolti da una nebbia fitta. Ci sono postazioni che distribuiscono cibo, una zuppa calda e un tè, alcuni portano con sé garofani rossi, da depositare nei luoghi in cui i propri cari hanno perso la vita. Altri esibiscono fotografie dei propri famigliari ed amici.

Dopo qualche minuto di marcia lenta e silenziosa, alle 4.17, ora esatta del sisma, alcune persone iniziano ad intonare “Sesimi duyan var mi?” (Qualcuno riesce a sentirmi?). La frase è il simbolo del terremoto e delle ricerche che proseguirono per oltre due settimane cercando di salvare più persone possibili. Appare essere anche una sorta di protesta contro alcuni politici che hanno deciso di partecipare alla marcia, come il sindaco di Antakya Lütfü Savaş, fortemente criticato dalla popolazione e nuovamente candidato dall’opposizione nelle imminenti elezioni municipali di fine marzo. Si sentono pianti, urla, grida di disperazione, ma anche applausi.

La marcia si sviluppa in un ambiente cittadino surreale, non si vedono palazzi intorno. Atatürk Caddesi, la via principale della città dove una volta sorgevano negozi e ristoranti, ora è circondata da cartelloni che mostrano come saranno i nuovi palazzi che sorgeranno, quella che chiamano la “Yeni Antakya” (nuova Antakya). Le uniche luci che si vedono tra la nebbia fitta sono quelle delle imponenti gru gialle nei cantieri.

L’ultimo giorno visitiamo alcune città container dove ancora vive la maggior parte delle persone. Rispetto all’estate scorsa, la situazione è cambiata notevolmente. Le problematiche sono in parte aumentate, tra container dove entra l’acqua e il rischio di incendi causato dalle stufe che vengono utilizzate per scaldarsi. Alcune persone hanno costruito delle piccole verande per aumentare lo spazio a disposizione, altri hanno addirittura dato vita a dei piccoli orti per coltivare verdure, cercando il più possibile di migliorare le proprie condizioni di vita. Parlando con alcune persone emerge come le difficoltà siano enormi, tra problemi di salute e profonde ferite psicologiche che saranno difficili da rimarginare.

Le scuole hanno riaperto, alcune nei container e altre in edifici messi in sicurezza, ci racconta un ragazzino di 12 anni che frequenta le scuole medie. Le famiglie hanno però enormi difficoltà nel comprare libri e materiale scolastico. Gli aiuti provenienti dall’estero e dalle organizzazioni non governative si stanno man mano riducendo, lasciando le persone in condizioni sempre più difficili in quanto costrette a far fronte ad un’inflazione galoppante e a costi della vita in costante aumento.

Gaziantep Kahramanmaraş AntakyaL’impressione è che se da un lato è innegabile che il governo abbia lavorato incessantemente, come dimostrato dall’enorme quantità di detriti che sono stati rimossi dalle città, seppur con ingenti conseguenze ambientali, dall’altro le problematiche ancora irrisolte rimangono innumerevoli. È estremamente complesso poter fornire un giudizio complessivo di quanto sia stato compiuto a un anno dalla terribile tragedia che ha colpito un territorio – è bene ricordarlo – grande quasi quanto il Portogallo. Le domande restano molte. Come si riuscirà a ricostruire città intere? Come si riuscirà a riportare la vita e il tessuto sociale di un tempo? A oggi una risposta a queste domande non sembra esserci.

Sulla via del ritorno per Istanbul, è impossibile non domandarsi cosa succederebbe se un terremoto di tale portata colpisse la città tagliata dal Bosforo. Nella speranza che il sisma abbia insegnato qualcosa, i dubbi, le incertezze e le difficoltà all’orizzonte rimangono una variabile difficile da decifrare. (Riccardo Gasco)

Foto di Riccardo Gasco

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