Turchia, cultura e società

Al via il 14° Documentarist

in Eventi in corso/Schermi

Inizia la 14^ edizione di Documentarist, il festival indipendente del cinema documentario d’Istanbul, che porterà una vasta selezione di documentari da tutto il mondo sia online che nelle sale della città. Come ogni anno infatti Documentarist, insieme a un’ampia selezione di nuovi documentari prodotti in Turchia, proporrà per la prima volta nel Paese alcuni dei film proiettati in prestigiosi festival come IDFA, Berlinale e Visions du Réel.

Quest’anno nella sezione online che durerà dal 3 al 6 luglio verranno proposti tutti i documentari che nelle ultime dieci edizioni del festival sono risultati vincitori del premio Johan van der Keuken per i giovani talenti. Dal 6 all’11 luglio, invece, un vasto programma composto dagli ultimi documentari nazionali e stranieri incontrerà il pubblico nelle sale del Museo Pera, del Centro di Cultura Francese e della galleria ARTER.

Documentarist quest’anno è incentrato principalmente sul tema “Extinction Rebellion”, per cui documentari sulle varie forme della crisi ecologica globale, sulla sua connessione con il sistema di sfruttamento capitalista e sulle varie lotte a questa connesse occuperanno un ampio spazio del programma.

Per presentare questa 14^ edizione del festival proponiamo di seguito un’intervista di Berke Göl a uno dei fondatori di Documentarist, Necati Sönmez, uscita in originale sul portale Hafıza Merkezi Berlin, riguardo l’organizzazione del festival, la necessità di creare una piattaforma per gli artisti durante la crisi globale e locale, le difficoltà di ottenere riconoscimento e finanziamenti in un contesto di pressione politica e censura.


Quest’anno si è giunti alla 14^ edizione di Documentarist. Negli anni sono stati proiettati centinaia di film da tutto il mondo e sono stati ospitati molti registi. Come descriverebbe l’obiettivo del festival? Come si è evoluto Documentarist alla luce della recente crisi globale nella sfera politica e dell’attacco al cinema documentario nello specifico?

Uno degli obiettivi principali di Documentarist è quello di presentare il cinema documentario contemporaneo sia al pubblico che ai giovani documentaristi in Turchia. A tal fine, ci concentriamo su documentaristi affermati che sono sconosciuti nel nostro paese anche ai registi e ai critici cinematografici, perché i loro film non arrivano mai negli altri festival di cinema in Turchia. Solo per citare alcuni nomi: Eyal Sivan, Helena Třeštíková, Heddy Honigmann, Stefan Jarl, Alan Berliner, Pirjo Honkasalo, Sean McAllister sono tra questi maestri. Penso che se vuoi essere un regista di documentari devi conoscere questi nomi e i loro film.

D’altra parte, un altro obiettivo importante è quello di fornire una piattaforma dove i registi locali possano condividere i loro film più recenti sia con il pubblico che con i loro colleghi. Sfortunatamente, i documentari realizzati in Turchia hanno una possibilità molto limitata di incontrare il pubblico dei festival, per non parlare dei telespettatori. Per molti giovani registi Documentarist è quindi una delle pochissime piattaforme in cui i loro film possono essere proiettati.

La crisi globale e locale della politica ha, ovviamente, un effetto diretto sulla produzione dei documentari e questo determina anche i contenuti del festival. Durante questi anni travagliati, i film che selezioniamo stanno diventando sempre più rilevanti per l’urgenza delle questioni che viviamo quotidianamente. In questo momento, ad esempio, stiamo curando un’ampia sezione inquadrata come “Extinction Rebellion”. Questo titolo è nato spontaneamente, poiché molti film che abbiamo visto durante il processo di selezione erano legati ai disastri ecologici che ci circondavano. In ogni caso, non cerchiamo di attenerci all’attualità ma di concentrarci sugli aspetti creativi del documentario.

Cosa può dire dell’atteggiamento del governo turco nei confronti del festival? Ricevete il supporto di cui avete bisogno? In che modo il clima politico mutevole nel paese si riflette sul festival?

Fin dall’inizio gli enti governativi –il Ministero della Cultura, la Municipalità, ecc.– non hanno mai simpatizzato con il festival, poiché il suo spirito indipendente e giovane è sempre stato molto chiaro. Il Ministero aveva il dovere di sostenere tali eventi culturali, ma Documentarist è molto probabilmente l’unico festival cinematografico in Turchia che non riceve alcun sostegno pubblico dal governo. A causa di tale censura economica abbiamo dovuto trovare metodi alternativi per sopravvivere, anche se questo rappresenta sempre una sfida. Il peggioramento del clima politico incide anche sul clima culturale, e questo si ripercuote inevitabilmente sul nostro festival. Stiamo ricevendo meno sponsor, molta meno pubblicità e nessuna copertura da parte dei media statali.

Per fare solo un esempio dell’atteggiamento degli sponsor privati, tempo fa uno studio di post-produzione che sponsorizzava uno dei premi del festival impegnandosi a realizzare la post-produzione del film vincitore, si è rifiutato di farlo dopo aver visto che il film era legato alla questione curda.

La sfera culturale in Turchia è nota per la pressione politica e la censura contro tutte le organizzazioni e le attività critiche nei confronti del governo. Negli ultimi anni è sicuramente diventato più difficile fare qualcosa che il governo non approvi. A parte la “censura economica” che ha citato, avete vissuto altri tentativi di ostacolare o limitare i vostri progetti? E in che modo avete reagito?

Finora non abbiamo affrontato alcuna censura diretta, ma abbiamo perso molte sale poiché titubanti a ospitare il nostro programma impegnato politicamente. Quando una volta la municipalità di uno dei distretti di Istanbul ha assegnato le proprie sedi al festival, ha voluto interferire nel programma ed eliminare alcuni film. Ovviamente ci siamo opposti, ma purtroppo questo distretto era uno di quelli gestiti dal partito di opposizione! La repressione crea un’atmosfera di paura e induce all’autocensura. Ne siamo testimoni di anno in anno.

Quest’anno ha curato il programma “Decolonizzare lo schermo” per bi’bak a Berlino. A causa della pandemia, la serie di proiezioni e discussioni è stata rinviata all’estate. Come descriverebbe il programma e il suo scopo? Com’è stata l’esperienza di curare questo progetto e cercare modelli di dialogo in un momento così difficile?

Ho lavorato a questo programma tematico dalla scorsa estate. Era programmato per essere pubblico all’inizio dell’anno, ma per ovvi motivi è stato rinviato. La serie di film è stata riprogrammata per agosto-settembre e durerà 8 settimane. Una volta alla settimana, ogni mercoledì, guarderemo film di un territorio colonizzato e ne discuteremo dal punto di vista della decolonizzazione con un esperto che lavora sull’argomento. Come ho già affermato nella dichiarazione curatoriale, “Decolonizzare lo schermo mostra una selezione di prospettive che sfidano la lunga storia dello sguardo coloniale e aprono discussioni sul retaggio dei film etnografici e sulla politica della produzione documentaria”.

Il processo di selezione è stato molto illuminante e avventuroso, così come la ricerca di esperti e il contatto con loro durante il lockdown. La comunicazione online con molti illustri studiosi e ricercatori mi ha aiutato a costruire una rete nonostante tutte le restrizioni. Abbiamo anche formato un gruppo di lavoro ristretto e abbiamo discusso gli argomenti su base settimanale. È stata davvero un’esperienza molto bella e stimolante.

Dopo la Turchia ha vissuto e lavorato al Cairo per un po’ di tempo, e ora vive a Berlino. Come paragonerebbe le sue esperienze come operatore culturale in questi tre diversi paesi?

Ho vissuto al Cairo per più di otto anni. Quando mi sono trasferito lì è stato il momento più emozionante; erano i primi mesi della rivoluzione araba. La violenza ogni tanto c’era ancora, ma la fase più difficile era finita e i giovani si sentivano molto orgogliosi di aver ottenuto una vittoria contro il dittatore. La dittatura non era stata ancora rovesciata, ma era stato decapitato il suo fulcro. Di conseguenza c’era un senso di libertà nella scena culturale. C’erano molti eventi, festival, attività di strada. Poi, purtroppo, in pochi anni è cambiato tutto. È stata ripristinata una nuova dittatura militare e poco dopo l’Egitto è sprofondato in un periodo molto buio in cui tutti gli eventi culturali alternativi si sono fermati o sono stati banditi. Ora è assolutamente impossibile organizzare qualsiasi evento fuori dal controllo dello stato. In Turchia, contro ogni previsione e correndo alcuni rischi, è ancora possibile farlo. Naturalmente, non posso confrontare questi due paesi con la Germania in termini di lavoro culturale. Qui abbiamo sfide diverse ma questa è un’altra storia.

C’è un interesse crescente e un desiderio di mostrare solidarietà nelle società occidentali verso i paesi in cui i diritti umani e la libertà di espressione sono minacciati. D’altro canto, questo interesse a volte è limitato a storie di vittimismo. Sembra che i governi occidentali o gli attori della società civile non sempre si concentrino su un autentico tentativo di solidarietà. È d’accordo con questa osservazione? Se sì, secondo lei quali sono le possibili strategie per avere un maggiore impatto e cambiare le cose?

Sono totalmente d’accordo. Da una parte c’è il problema della vittimizzazione, dall’altra l’atteggiamento paternalistico. Inoltre il mondo occidentale è molto selettivo nell’essere solidale con altre parti del mondo. Voglio dire, guarda la “solidarietà” in termini di vaccinazioni durante la pandemia!

Per loro c’è chi merita solidarietà e chi no. In Germania, ad esempio, i palestinesi non meritano quasi nessuna solidarietà. Al di là del complesso di colpa basato su fatti storici, qualsiasi atto di sostegno alla causa palestinese può essere considerato da alcuni come antisemita. E mentre ci sono segni di cambiamento nell’atteggiamento pubblico in Germania nei confronti dei palestinesi a Gerusalemme e Gaza, gran parte del panorama politico, inclusa la sinistra, sente ancora il bisogno di schierarsi con Israele, senza considerare quanto brutale sia la sua politica o il fatto che le ONG internazionali lo stiano definendo uno stato di apartheid. Insomma, doppi standard e ipocrisia non riguardano solo il cosiddetto mondo sottosviluppato. Per provare a cambiare le cose penso che dobbiamo sfidarle e continuare a portare la questione al centro del dibattito. I cambiamenti arrivano molto lentamente, a volte ci vogliono decenni, ma vale la pena provare.

La pandemia ha ovviamente avuto un effetto negativo su tutti i tipi di eventi culturali e sui modi in cui gli attori della società civile possono unirsi e cooperare. Come percepisce la situazione attuale? Cosa accadrà nel futuro prossimo?

Durante i primi mesi della pandemia avrei osato parlare e riflettere sul futuro, anche se allora era piuttosto sfocato e ambiguo. Ora esito a dire qualsiasi cosa. Ma il futuro prossimo è alle porte e penso che tendiamo a rifiutarci di trarre lezioni da ciò che ci è successo. Temo sia così per la comunità culturale ma anche per la società civile.

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