Turchia, cultura e società

Sait Faik e l’etica della passione

in Scritture

In occasione dell’uscita in italiano della tanto attesa raccolta di racconti di Sait Faik pubblichiamo di seguito, su gentile concessione della casa editrice Adelphi, la postfazione a firma di Giampiero Bellingeri, già docente di lingua e letteratura turca all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ed esimio traduttore di narrativa e poesia turca.


Sait Faik Abasıyanık è stato lo scrittore che, coltivando successivamente generi diversi (poesia, diaristica, reportage, cronaca giudiziaria, inchiesta, intervista, saggio e soprattutto racconto), è riuscito a imprimere accenti nuovi alla lingua delle lettere turche, a spogliarla dell’ampollosità e della retorica che l’avevano dominata. Fin dalle sue prime prove ricorre a dislocazioni di persone, vicende, scenari, in contesti inattesi, spesso privi di una forma definita, ma pronti ad assumere, grazie al suo stile, lineamenti familiari; e riesce ad allestire piccoli drammi, individuali e collettivi, nel segno di un amore vitale e spossante per gli uomini tutti, per l’intera natura. Un amore pervasivo quanto l’impegno della sua scrittura, quanto il suo invito, almeno inizialmente fiducioso, alla degustazione della bellezza.

È un universo, il suo, costituito da due poli tra i quali egli costantemente oscilla: Burgaz, l’isola di pescatori dove ha sempre vissuto con la madre, e certi quartieri di Istanbul – soprattutto Beyoğlu, Galata, Pera – chiassosi, febbrili, cosmopoliti, brulicanti di vita, nei quali si immerge l’instancabile flâneur: tra bordelli, osterie, pasticcerie, alberghi, squallidi o lussuosi, Sait osserva con avidità non solo gli esseri umani (le donne, ma ancor di più certi giovani), ma anche i cani, gli uccelli, i pesci, il cielo, il mare, i tram, le chiatte, i taxi. La sera, dopo aver bevuto un ultimo bicchiere con qualche amico, si reca all’imbarcadero per Burgaz: in quell’attesa comincia a stendere appunti sulle visioni e le illusioni della giornata, continuando poi a scrivere febbrilmente anche a bordo del vaporetto, e per gran parte della notte.

Il suo percorso artistico si inaugura con una manciata di versi tra l’urlo – del banditore, o del disperato che strillando sulle piazze e ai crocicchi scuote ed esorcizza la propria solitudine – e il sussurro, l’invocazione di chi intreccia strofe e scongiuri tesi a comunicare il bisogno di offrire e ricevere affetto, calore. Sempre, tuttavia, insistendo sulla propria paura dell’amore: l’unico sentimento – e questa è per lui una certezza assoluta – che avrebbe potuto ridurlo in miseria, spogliarlo di tutto, privarlo del senno.

Nelle svolte esistenziali, che a mano a mano lo rendono più incline al pessimismo, l’itinerario artistico si fa tortuoso, dispersivo, dilatato dalla varietà dei linguaggi: maniere derivate dall’immersione nell’oralità, applicate a costo di comporre frasi inaccurate – segnali della confusione di chi barcolla sotto il peso di passioni insopprimibili. La scrittura è chiamata a lenire, e insieme ad accentuare, le devastazioni provocate dall’amore non corrisposto (ma soprattutto trattenuto). È nel 1948, con la raccolta Un uomo inutile (Lüzumsuz Adam), che Sait Faik finalmente dà voce a quanto emerge dalla coscienza e dalla memoria, e lo fa con foga logorante, a brani e a strattoni, e con l’angoscia di censurarsi, mimetizzare, reprimere la propensione a quel piacere che la morale comune condanna. Di un essere umano «proibito» parla infatti Sait, avvilito, e impaurito, dallo sprizzare di scintille creative, in quel suo procedere tra risonanze e riverberi. Rimbalzano i riflessi e calano le ombre – a scandire i segmenti e i tracciati dei percorsi e dei periodi creativi – sugli spazi urbani e temporali praticati lanciando, alle figure avvolte dalle vampe fosche del desiderio, le occhiate oblique e pensose del flâneur.

Testimonianze di una vocazione cogente, quelle accennate strofe: fonti che avrebbero irrigato le sue prime prose. Impregnate di realismo? Va detto che il «fatto», o l’incontro, inventato o registrato nei suoi aspetti essenziali durante le minuziose perlustrazioni, ci viene riproposto in una forma riscoperta, rimodellata.

Assistiamo, nei suoi testi, al laborioso tradursi di percezioni elementari in immagini e voci – tutta un’espressività nutrita da uno sguardo straordinariamente ricettivo rivolto alle persone, il piccolo popolo delle strade, i venditori ambulanti, le donne, i ragazzi di vita: occhiate discrete, timide, sebbene «colpevoli» perché umide di libidine. Ma Sait scrive pure di gioie immediate e subito incenerite nel tumulto delle visioni brucianti, di fantasie, e poi di ritorni a casa. Sempre con addosso una immedicabile solitudine, nel pensiero che crea, abbatte e riassesta scenari spiantati, tra sogni e ossessioni; sempre nella diffidenza verso la vanità, la menzogna delle lettere. Parla, compone, Sait Faik, e appare in bilico fra stati psichici: vacilla nella disperazione, per poi riprendersi nel trepidante, solitario ed effimero conforto creativo. Nei momenti di tedio, o quando, sotto l’impulso dell’amore per l’umanità, lo coglie la sensazione che la mente gli sia penetrata da un’alterità del proprio io, eccolo muoversi alla ricerca di «angoli malinconici»: per percepirvi con maggiore acutezza quella strana mescolanza di una presenza e al contempo «di nessuno». Assillato da dubbi angosciosi – sulle proprie inclinazioni affettive, certo, e sulle forme che possono assumere l’amore e l’erotismo, ma anche su altre forme: quelle dell’arte –, ha però una convinzione ben radicata: riconosce come essenziale il ruolo che osservazione e immaginazione, grevi di sensualità, svolgono per lui, a mo’ di puntelli su cui fare perno. Quell’insoddisfazione perenne, quel tedio e quell’assillo sfibrante diventano stimoli a reinventarsi: grazie a parafrasi di visioni, fantasie ritrovate, ricollocate in giorni e notti di travagli, echi e riflessi degli indugi a bere. Pare quasi di partecipare all’instaurarsi di un dialogo mimetico tra lui, Sait, e i bicchieri, pieni, inclinati, svuotati: specchi posti di fronte alle labbra dischiuse, alle fessure degli occhi.

Nel 1934, Sait ricompare a Istanbul, dopo un soggiorno «clandestino» di tre anni a Grenoble, deciso al fine di eludere gli studi di economia e commercio a Losanna. Qui il padre, intraprendente uomo d’affari, lo aveva mandato affinché acquisisse competenze e cognizioni utili ai ramificati traffici familiari di legnami e granaglie. Ritorna a casa avendo assaporato nuove esperienze, e scoperto nuove concezioni estetiche: eccitato dal vino e dal richiamo ad ammirare, ad assaporare una bellezza ormai più sensibilmente incarnata nell’elemento maschile. Ha letto Gide («È con lui che mi sono assuefatto a me stesso», ammette), del quale traduce, riscrive, riassume le scene, sovrapponendo il proprio sguardo al suo, rivolto agli uomini giovani; e ancora legge e traduce Genet, Lautréamont, Proust. Stretto però sempre tra quella paura di amare qualcuno e lo sgomento della solitudine, nel distacco dopo fugaci o immaginari incontri, segnati da malintesi e da timori. Perché, da Gide, Sait non avrebbe tuttavia appreso a superare, in un sereno «immoralismo», i dissidi tormentosi fra la morale dominante e la conquista di una sensualità e una sessualità appaganti. Elementi, disagi trasposti nella quotidiana pratica di quella scrittura che, pur ripetendo di non saper né vivere, né dire, né scrivere, lui non abbandonerà mai. Nei racconti, abbozzati nelle pause del suo disordinato vagare diurno e notturno, continuerà a pulsare, e ad articolarsi, il rimpianto di una sapienza del vivere mai raggiunta.

Non potremmo dirle trame, le sue: piuttosto, sequenze mutevoli, rapide. Lo sguardo cattura visioni, che vengono poi esposte – all’inizio in terza, in seguito in prima persona – in una prosa che è un montaggio di frammenti, incrociati e distorti da pieghe oniriche, magari per distanziarsi dal realismo e difendersi dalla disapprovazione sociale delle proprie inclinazioni. In una solitudine accompagnata da goffi approcci e incontri trasognati, Sait intesse stesure sperimentali, fatte di accenni, divagazioni, temi e ritmi svariati, con le cadenze e le cupezze degli incubi, dei rimorsi: per sempre inadeguato al mondo, privo del coraggio di accostarsi più decisamente a un uomo. Materia narrativa di sovrapposizioni e collage, di pelle e pellicole, fotogrammi e pennellate che restituiscono i dettagli della fisicità: occhi, sopracciglia, capelli, mani, polsi, palmi (meglio se sporchi). Sensi e stati vivono nell’artificio. Descrizione dinamica: della bellezza, soprattutto virile, affiorante da brutture che mai dovrebbero marchiare né chi desidera né chi ammira quei corpi desiderati. Corpi di giovani osservati in istanti rubati – molto lontani, va detto, dai neòi di Kavafis: quei ragazzi che nel poeta greco appaiono coetanei e consenzienti agli incontri. E se L’idiota, come ricorda Sait, afferma che la bellezza salverà il mondo, ecco che lui è indotto a constatare ben altro: «La solitudine ha riempito il mondo. Tutto comincia con l’amore, con l’amore per qualcuno. Ma, qui, tutto finisce con l’amore».

Sin dalle prime raccolte narrative seguiamo lo sfaccendato che si affaccenda a scrivere, rievocando e fissando i particolari della giornata; il perdigiorno ansioso sulle tracce degli amori e dei giorni perduti; il fannullone che racimola, ritrova, reinventa visioni e parole. E prova poi a ridirle, quelle visioni, in una sintassi funzionale a mantenerle vivide nell’eco dell’oralità estemporanea, ghermita al volo. Sarà, il suo, un assiduo collaudo di sinestesie: occhio, visioni, e voci, sommesse, sguaiate, colorite, nelle frasi, nelle canzoni, negli scritti nervosi, così che gli insiemi verbali non si assestino mai del tutto, ma vengano invece ravvivati dalle presenze che dovrebbero, nell’immaginazione di chi scrive, rendere la vita stessa una forma dinamica di arte, di ricomposizioni e scomposizioni liberate dai divieti. Caratteri, persone di carne e di carta, osservate, idealizzate, fantasticate, e sorde ai suoi appelli e inviti – sospesi nell’aria, del resto, come gli sguardi.

Mai sopite, la mortificata passione per quei corpi di ragazzi capaci di provocare desiderio, di perturbare non solo l’osservatore, geloso e stupito, ma un quartiere intero; e la voglia di amare, alimentata da una scrittura che a sua volta se ne nutre, attutendo il tormento della colpa.

«Eccolo qua, ce l’hai davanti… Vedi le sue mani, le dita, i piedi. Chi è? L’essere umano. Come te, uguale identico… Un essere umano esattamente come te, e diverso, come te. Per giunta, lo ami… Chi è? Che cosa pensa di te? Dove vorrebbe essere in questo momento? E del tuo amore, gli importa qualcosa?… Ho sollevato la coperta. Raggomitolato nell’angolo, lui dormiva di un sonno profondo. L’ho abbracciato». Così, il sonno, ora rimuove, ora accoglie un sogno, e nel sogno, soltanto nel sogno, avvolge l’altro in un abbraccio. E i sogni sono evanescenti come i giovani belli, come i fantasmi che escono fluttuanti dagli attori nei film, in quei cinema che sono luogo di incontri e condanne, o durante le code alla biglietteria, o nel buio della sala. Un buio che non copre, non alberga lo sfiorarsi, il toccarsi: se, dei due, l’uno resta distaccato. Felicità appassita, inattuabile. Fino a indurci a pensare che Sait, a dispetto di rêveries, fantasmi, sdoppiamenti e propositi, sia mutato col passare degli anni – e non solo nel corpo, sempre più malato. Se Marcel ritrova il tempo e la felicità quando le analogie miracolose lo lasciano evadere dal presente, Sait, pur nella sofferenza, dal presente non può staccarsi, immerso com’è nel baluginare delle analogie tormentose di quegli sguardi, le quali, lampanti e poi cupe, si ripetono: lugubri, attuali. Quel distacco dal presente non gli è concesso nemmeno dal bere, o dall’immaginazione, non più fervida, anzi lì lì per estinguersi, soffocata e poi riaccesa, ancora una volta, dall’antica voglia di sognare incontri e abbracci, di amare.

Seguiranno altre migrazioni, altre chiusure, e poi altre inclusioni e abbagli consapevoli, e anche esclusioni, causa di dolore fra la sua gente, quella – ritenuta onesta, operosa, magnanima – che abita l’isola di Burgaz. Pensiamo a quella sintesi cartografica, e insieme mappatura etica, di un’aspirazione a ritrovarsi solidali nella natura, materna e severa, che aiuta e istruisce gli uomini a rafforzarsi per affrontare le difficoltà più aspre, che è Un puntino sulla carta, e al suo disperato epilogo: il piccolo uomo smunto che ha partecipato alla pesca, venuto da fuori, estraneo, affamato, se ne va via senza aver ricevuto un solo pesce, respinto da altri uomini piccoli, vittime della loro grettezza. Eppure saranno pescatori di Burgaz, quando Sait alla fine entrerà in agonia, con il fegato distrutto dall’alcol, a offrirgli il proprio sangue. Ma invano. Sait Faik muore a quarantotto anni, nella casa di Burgaz.

Riascoltiamo dunque l’epilogo di quel racconto, rivediamo quell’omino esile: «… E se ne andò, allontanandosi a passi corti, quasi saltellando, come uno Charlot, verso il vapore che stava arrivando all’imbarcadero. Mi ero ripromesso di non scrivere. Non volevo. Anche scrivere, che cosa è se non un’ambizione pretenziosa?… Ma non ce l’ho fatta. Sono corso dal tabaccaio, ho comprato carta e matita. Mi sono messo a sedere… Ho fatto la punta alla matita. Dopo averla temperata, l’ho presa e l’ho baciata. Se non avessi scritto, sarei impazzito».

Sono queste le sofferte invenzioni di Sait, raccontate in frasi zoppicanti, dai passettini timidi e avviliti, che balbettano, ansimano, inciampano, nel coprire le distanze e i distacchi, come uno Charlot. Con quella matita che, appuntita nelle convulsioni, nella mortificazione indignata, ricalca i puntini e punge chi abita le isole e i cantoni del mondo. Nel tentativo disperato di salvarsi dalla pazzia al calore della passione: per l’amore, per la scrittura, e per la bellezza, bramata e non attinta.

Giampiero Bellingeri
su gentile concessione per Kaleydoskop
©2021 Diritti riservati Adelphi edizioni s.p.a. Milano

Latest from Scritture

Paese Proibito

Un racconto di Gönül Kıvılcım, traduzione di Fabrizia Vazzana
Go to Top