Turchia, cultura e società

Primo Maggio Istanbul 1997 cartolina

Capire il Primo Maggio a Istanbul

in Società/Spazi

Intervista all’antropologo Lorenzo D’Orsi

Istituito come giorno festivo durante l’epoca di Mustafa Kemal Atatürk, negli anni Settanta il Primo Maggio a Istanbul in piazza Taksim diventa l’appuntamento dove la sinistra radicale rivendica le proprie istanze politiche. La Festa dei lavoratori del 1977, conosciuta anche come kanlı mayıs (“maggio di sangue”), segna però uno spartiacque: in circostanze mai del tutto chiarite, qualcuno apre il fuoco sulla folla e la polizia interviene seminando il caos; nella calca muoiono trentaquattro persone. Da allora viene interdetta Piazza Taksim alle celebrazioni del Primo Maggio, fatta eccezione per il triennio 2010-2013. A seguito del colpo di Stato del Generale Kenan Evren nel 1980, le organizzazioni di sinistra vengono messe al bando e i militanti perseguitati. Una volta represso il movimento, il Primo Maggio finisce così per consolidarsi come una giornata in cui i manifestanti cercano, ogni anno senza successo, di superare i cordoni di polizia per accedere a piazza Taksim.

Quest’anno, però, la manifestazione sarebbe potuta andare diversamente, guadagnando inoltre la partecipazione di attori estranei alla sinistra radicale. Il 14 maggio si terranno le elezioni presidenziali e legislative da cui dipende la sopravvivenza della ventennale egemonia del Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. A sole due settimane da questo appuntamento elettorale determinante per il futuro del Paese, il Primo Maggio avrebbe potuto infatti tradursi in un’occasione per le forze politiche di opposizione e per la società civile in cui contestare la deriva sempre più autocratica perseguita dal Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP). Il fallimento del consueto tentativo di entrare in piazza Taksim e la presenza di sole organizzazioni di sinistra suggeriscono però che nulla sia cambiato rispetto agli anni precedenti. Perché?

Ne abbiamo parlato con Lorenzo D’Orsi. Docente di antropologia presso l’Università degli studi di Foggia, D’Orsi ha svolto ricerche etnografiche in Turchia sulle politiche della memoria delle dittature militari, occupandosi inoltre di nuovi movimenti sociali in relazione alle proteste di Gezi Park. Autore del libro “Oltraggi della memoria. Generazioni, nostalgie e violenza politica nella sinistra in Turchia”, nel 2017 ha ricevuto il Prix International Mémoire d’Auschwitz per la sua ricerca sulle memorie dolorose dei combattenti rivoluzionari in Turchia.

1 Mayis, 1 maggio, festa dei lavoratori, taksim, Gülgün BaşarırNel tuo libro scrivi che “la poetica dello scontro del Primo Maggio può essere letta come una memoria che si fa azione”. In che cosa consiste la Festa dei lavoratori a Istanbul? 

Il Primo Maggio è un conflitto che possiamo definire di tipo rituale in cui ruoli e azioni sono ben codificati. In questa occasione viene messo in scena sempre lo stesso dramma sociale, tra strade chiuse al traffico, cariche della polizia, idranti, fumogeni, arresti e alcune volte, come nel 1996, anche vittime: da una parte ci sono i militanti delle organizzazioni di sinistra e dei sindacati che provano a varcare la soglia di piazza Taksim, un luogo carico di mitologie politiche, rivendicazioni identitarie, esperienze generazionali e continuità familiari; dall’altra parte si schierano le forze dell’ordine, che sistematicamente li reprimono. Il Primo Maggio in piazza Taksim non va letto nei termini di una strategia politica per conseguire realmente degli obiettivi, altrimenti i consueti scontri con la polizia rimarrebbero incompresi. Si tratta piuttosto di una “protesta sconfitta”, che risveglia in chi vi partecipa la consapevolezza del ruolo che ricopre nella storia: quello di dissidenti che, specialmente dopo il golpe del 1980, hanno subito la repressione del Derin Devlet (“Stato profondo”), percepito dagli attori sociali come un agente unitario e trans-storico che si riproduce al di là dei governi e delle regole democratiche. Durante la Festa dei lavoratori, gli attivisti mettono in atto pratiche di protesta e di memoria, riattivano una cultura resistenziale che insegna loro a occupare lo spazio pubblico, trasmettere valori morali e sviluppare una dimensione di gruppo. Emblematiche in questo senso sono le parole di un’attivista appartenente a un piccolo partito di sinistra, figlia di un ex combattente rivoluzionario degli anni Settanta, secondo cui: “Una volta finito, si pensa subito ad organizzare quello del prossimo anno, un po’ come per voi il Natale”. Questa considerazione del Primo Maggio rivela un senso di intimità tra chi sta in piazza che, allo stesso tempo, marca una forte differenza con coloro che non vi partecipano.

Per cosa si distingue il Primo Maggio rispetto ad altre manifestazioni del dissenso come le proteste di Gezi Park, di cui quest’anno ricorre il decennale, e l’annuale commemorazione del giornalista turco-armeno Hrant Dink?

Le proteste di Gezi Park e la commemorazione del giornalista turco-armeno Hrant Dink, assassinato nel 2007, rimescolano posizioni politico-identitarie già date, mentre il Primo Maggio le ripropone identiche a se stesse. Gezi Park è stata infatti una protesta che ha riunito persone abituate prima d’allora a pensarsi antitetiche per stile di vita, posizionamento politico e religioso: militanti di sinistra, giovani apolitici, nazionalisti, kemalisti, minoranze etnico-religiose, piccoli gruppi musulmani. Allo stesso modo, durante la manifestazione in memoria di Hrant Dink lo slogan è “Siamo tutti armeni”, nonostante i partecipanti siano per la maggior parte turchi. Il Primo Maggio ribadisce una circolarità tra esperienza e aspettative sul mondo perché sappiamo già che andrà a finire con la sua repressione, mentre le proteste di Gezi Park e la commemorazione di Hrant Dink evocano la possibilità di uno scenario differente.

Capita spesso che nelle campagne elettorali, specialmente quelle più decisive, si polarizzi il confronto tra i candidati e il nemico del nemico diventi proprio amico. In occasione del Primo Maggio, però, il candidato presidente dell’opposizione, Kemal Kılıçdaroğlu, non ha espresso alcuna dichiarazione a sostegno dei manifestanti. Perché?

Essendo ampia, la coalizione guidata da Kılıçdaroğlu deve inevitabilmente rivolgersi a uno spettro diversificato di elettori. In più, per delegittimare gli avversari politici Erdoğan ricorre spesso agli spauracchi dell’assedio esterno, dell’élite laica e kemalista che ha oppresso per decenni il “popolo”, del nemico interno, del terrorista o della connivenza dell’opposizione con il Partito Curdo dei Lavoratori (PKK). Insieme a una nostalgia per il periodo ottomano, questi sono gli elementi cardine del suo armamentario retorico. Immagino che l’obiettivo di Kılıçdaroğlu sia quello di non prestare il fianco a questa retorica ultranazionalista.

Di cosa avrebbe allora bisogno il Primo Maggio per allargarsi ad altri settori della società civile?

Come scienziato sociale preferisco non assumere una postura prescrittiva. Posso però dire che, a mio avviso, uno degli aspetti che impedisce la condivisione delle rivendicazioni della memoria della sinistra turca da parte di più ampi settori della società civile sia il linguaggio incentrato sul martirio marxista. Bisogna tenere presente che in Turchia il martirio è un codice mnestico condiviso dal discorso egemonico e contro-egemonico. A partire dai martiri di Stato, esso è la forma del ricordare più diffusa e crea una memoria sacralizzata e di combattimento. Se da un lato la figura del martire permette di creare delle comunità della memoria, dall’altro stabilisce confini simbolici che impediscono a chi è esterno di provare empatia per quel dolore. In altre parole, ognuno ha i propri martiri e rimane chiuso all’interno del proprio universo morale: esistono infatti i martiri dello Stato, di sinistra, di destra, quelli curdi o islamici, etc.

Identificare una forma di memoria alternativa in Turchia rimane però una cosa molto complicata. Uno dei protagonisti della mia ricerca, un ex rivoluzionario oggi attivista dei diritti umani, lo chiarisce bene. In una delle nostre conversazioni spiega che la questione non risiede nel ricordare o dimenticare ma nel come ricordare: “La sinistra ha tutte queste canzoni e storie tristi su cosa ha subito. E in Turchia siamo pieni di documentari e libri che nessuno guarda, siamo pieni di discorsi sulle vittime e sugli eroi, ma non toccano le persone. Allora io credo che dobbiamo dire queste storie in altro modo oppure trovare altre storie”.

Non basterà quindi battere alle urne l’AKP per eliminare l’indifferenza verso i morti di sinistra ed allargare la partecipazione al Primo Maggio. Il senso generalizzato di indifferenza verso la violenza politica vissuta dai gruppi dissidenti, in questo caso i militanti di sinistra, non dipende soltanto dai contorni del discorso egemonico dello Stato, ma anche dai simboli, dalle rappresentazioni culturali e dalle metafore che sono mobilitate per articolare la memoria. Ad esempio, Hrant Dink auspicava nei suoi articoli sul giornale turco-armeno Agos la creazione in Turchia di un multiculturalismo dove si suona non soltanto la propria musica ma anche quella dell’altro per produrne una nuova. Attraverso questa metafora, Dink manifestava un posizionamento politico-identitario mutevole e non reificato.

[di Nicolò Cenetiempo]


Le immagini sono cartoline postali prodotte nel 1977 in occasione del 10° anniversario della fondazione del sindacato DISK, sono nell’ordine opere di: Gürel Yontan (copertina), Gülgün Başarır e Sadık Karamustafa.

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