Turchia, cultura e società

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Terremoto / Ricordare il mosaico Antiochia

in Spazi

A sei mesi dai terremoti che il 6 febbraio e nei giorni seguenti hanno devastato la regione del sud-est della Turchia e nord della Siria pubblichiamo questo reportage di viaggio di Daud Al Ahmar, che lavora nel settore umanitario e ha vissuto ad Antiochia tra il 2014 e il 2016. Il testo è stato redatto nell’estate del 2015 con il desiderio di raccontare il fascino di una città antichissima che ha tenuto assieme, attraverso i secoli, gli umori e le storie di uomini e donne – pellegrini, viaggiatori, imperatori, profughi, minoranze – che vi sono passati o vi si sono fermati. Pubblichiamo questo testo oggi come augurio ai sopravvissuti del sisma. Non è la prima volta che accade: il terremoto del 526 pare abbia mietuto centinaia di migliaia di vittime e portato via con sé quanto edificato dai romani. Se questo è un ciclo e la Storia non finisce, l’augurio è di una splendida rinascita.


Antiochia – cittadina sita nel sud-est della Turchia a una ventina di chilometri dal confine siriano – è un nome che evoca un passato fin troppo glorioso per quella che oggi è una vivace cittadina della provincia turca, più nota per le qualità culinarie che per il suo posto nella Storia. Certo, per i viaggiatori piú incalliti era una costola importante di un itinerario che puntava verso le meraviglie di Aleppo, Palmira e Damasco, prima che la tragica guerra siriana lo interrompesse brutalmente. antiochia antakya minaretoMa, Antakya, a suo modo, continua ad attrarre un variegato turismo: quello “interno”, che viene a gustarne la cucina prelibatissima, a vedere i bellissimi mosaici di età ellenistica, e respirare quell’aria cosmopolita e interconfessionale divenuta una rarità nella Turchia odierna. C’è poi un turismo “confessionale”: i cristiani, felici di visitare i luoghi dei Santi d‘Oriente – sulla via che va da Tarso a Şanlıurfa sino a Mardin -, gli aleviti che nei dintorni trovano importanti ziyarat da visitare, e gli ebrei che qui possono visitare una piccola ma graziosa sinagoga.
Antiochia è un posto singolare davvero, sul quale vale la pena soffermarsi, e su più di un aspetto: storico, sociale, politico e, perché no, anche antropologico. Da secoli crocevia d’uomini e donne di ogni estrazione sociale, etnica, linguistica e confessionale, è una di quelle città le cui dimensioni umane sfuggono alle odierne mappature, in cui si respira quell’aria spessa che caratterizza i posti di confine, all’incrocio dei venti.
Di fatto, chi si voglia prendere la briga di arrivare sin qui, sarà ripagato da un’atmosfera d’un fascino tutt’altro che gualcito: zigzagando per le stradine della città vecchia (un sorta di suq, o casba), che sorge ai piedi di un monte d’una sacralità parnassica, ci si imbatte in un’umanità che ricorda la letteratura di Panait Istrati, Sait Faik Abasıyanık  o Nicolas Bouvier. Basta imboccare la porta di uno dei numerosi caffè al di qua delle vecchie mura, per scoprire una miriade di gioiellini – le corti interne, dal sapore aleppino – al centro delle quali zampillano fontane, crescono limoni e melograni, vasi di menta e malvarosa, imbevute degli aromi di un caffè turco che qui viene speziato al cardamomo come si usa, appunto, in medioriente. Se si entra da Ehliddar, ad esempio, le fresche pietre che pavimentano il chiostro formano una sorta di scacchiera dove sono disposti dei graziosi tavolini, il cui legno è intagliato dagli artigiani della porta accanto, che intrecciano d’altronde anche il vimini delle seggiole. Sedersi qui, specialmente in estate, significa rinfrescarsi con una spremuta di agrumi, una fetta di anguria, poggiare il piede sulle lastre fresche e chiedere al cameriere una vecchia tavla (backgammon) di legno per trascorrere il pomeriggio in compagnia.
E poi c’è la musica. Sempre e ovunque, che avvolge tutta la giornata come il fumo odoroso dei narghilè alla mela; ogni caffè ha la propria colonna sonora che accompagna le ore e che si abbassa solo per un istante, quando, a sera, sale il canto del muezzin dagli altoparlanti: troppo breve la litania per distinguersi veramente dal ritmo orientaleggiante dei liuti. Spesso da Elhiddar c’è un ragazzo siriano che suona Fairuz al violino, e che dà lezioni ai piú piccoli.
Insomma, con le dovute proporzioni estetiche, fontanelle, pozzi, marmi, roseti e bouganville, echeggiano di non poco le abitudini damascene o aleppine sia nei piccoli caffè del centro che nelle eleganti abitazioni e vecchi alberghi tutti rifiniti in calce bianca e colonne di arabeschi. Un confronto, che si puó fare solo a bassa voce però, perché paragonare Antiochia ad Aleppo o Damasco, per un siriano è sacrilegio.
antiochia antakya città vecchiaEppure di somiglianze ve ne sono eccome, anche perché Antiochia fu per lungo tempo provincia dell’Aleppo ottomana, e i richiami sono nell’architettura, nella cucina, nei tratti somatici della gente, nella miscela culturale e linguistica. Nel distretto di Hatay, di cui Antiochia fa parte, non è raro vedere occhi verdi e sopracciglia carbone, zigomi circassi, sorrisi turcomanni, caratteri armeni; e poi quasi tutti i turchi qui sono perfettamente bilingue arabo-turco.
Se si possiede il fiuto d’antropologo amatoriale o una frizzante curiosità, si farebbe bene a visitare quei piccoli musei che sono i negozietti di souvenir locali, la cui entrata è gratuita, e il prezzo da pagare è solo il tempo. Uno dei bei tranelli del viver levantino è la sua dimensione temporale, un fluire lento e sordo, come le acque insonnolite del fiume Oronte: anche il tempo, come il fiume leggendario di Antiochia, non si sa bene da dove venga né dove finisca. I negozi, si diceva, offrono un caleidoscopio di ninnoli, amuleti e chincaglierie che sono un echeggiare di storie, leggende, convivenze e connivenze sino alle più bislacche distopie. Strani utensili in legno d’ulivo per pettinare la lana grezza, calamite da frigorifero con croce, stella ebraica e mezzaluna felici e coesistenti, Dionisii ellenici dalle prosaiche nudità, finti mosaici e dipinti in ebru raffiguranti figure mitologiche come Shahmaran, la “donna-serpente”, pietruscoli archeologici, monete e rami romani e ottomani. E ancora: talismani incastonati con pietre semi-preziose, semi-lavorate, semi-smangiucchiate o modellati con fiori e bacche magiche. Non mancano poi le cartoline in bianco e nero, coi vecchi francobolli, foto delle occupazioni coloniali e battaglie, vecchi grammofoni, macchine Singer. E infine, l’irrinunciabile-ineludibile volto del padre dei padri, Atatürk, riprodotto in ogni salsa, tappetino, lucetta e contraltare – che dietro quell’incresparsi di labbra scaltre e luciferine ammonisce i passanti instupiditi davanti a tanta meraviglia, con una sorta di “vuolsi così colà… e più non dimandare!”
Antakya è porto di tante attività artigianali che fioriscono continuamente, fabbri, vetrai, tessitori, orologiai. Ha la memoria delle cose: si trova con facilità chi aggiusta. Ha il sapore e le qualità da equilibrista di certe “città invisibili” di Calvino. I negozi di fresca muratura, invece, sono stati tirati su di recente da famiglie di siriani, e se si guarda attraverso i vetri si scorgono indaffarati padri e indaffarati figli a sistemare fili elettrici, scaricare le bombole del gas, rifinire giunture, inserire cartellini con grafia araba dietro i prodotti. Piccoli ristori per humus e felafel, barbieri, minute mercerie: i rifugiati si stanno pian piano adattando all’urbe dell’Imperatore Giuliano e del Presidente Erdoğan. Ma se è vero che in città vecchia si notano piccole attività commerciali – forme di vita e di speranza per chi fugge dalla guerra – nella periferia sono evidenti i segni dello sfruttamento quando alle prime luci del mattino i ragazzi siriani (esclusivamente uomini) aspettano in lunghe file i camion che li portano nei campi o nelle fabbriche per chissà quale paga.
antiochia antakya vicoliLa popolazione locale ha un fascino tutto suo, che si manifesta in modi cordiali, curiosi ma allo stesso tempo discreti, perché si misura con una sconfinata abitudine alla diversità. Nonostante un immancabile campanilismo locale, ad Antiochia si sente meno quella premura che spesso si incontra in Turchia del doversi identificare. Premura che hanno quelle maggioranze nazionalistiche le cui identità scricchiolano, appunto, e debbono essere sempre ribadite dall’onnipresente bandiera.
L’ospitalità degli antiochiesi è evidente, e se a volte s’inciampa in qualche diffidenza basta pochissimo per levigarla: si tratta di una maschera di recente applicazione frutto di guerra e derivati geopolitici. Ci si ferma a chiacchierare con qualcuno, chiedere indicazioni, chiarimenti, illustrazioni – gesticolare insomma – per incappare in un sorriso sornione, in un carattere docile ma ben temprato sia dalla coscienza storica che dagli alcolici, con cui gli autoctoni rinforzano il proprio orgoglio di cui già Giuliano l’apostata nel suo simpatico libello sulla barba Misopogon fece esilarante cenno. Peraltro, Dioniso che tracanna da una coppa, sorretto a stento da qualche grazioso satiretto è uno dei motivi più comuni dei mosaici di Antakya!
A proposito di campanilismo, anche qui come in altre città sparpagliate per la mezza luna fertile fino alla Gerico palestinese, gli abitanti non mancano di ricordare al forestiero che sta camminando “nella città più antica del mondo”. Del resto, se si pensa che gli europei si arrogano ancora il diritto al “vecchio continente”, questo orgoglio un po’ filibustiere e mesopotamico non lo si può certo biasimare.
In fin dei conti è vero che andando a ritroso si fatica a trovare un capo alla storia di Antakya – dall’ellenismo a Giuliano l’Apostata, da provincia di Aleppo a Stato indipendente, sino a quando un referendum ne ha deciso le sorti turche. Antiochia è una delle ormai rarissime città della Turchia orientale dove convivono le tre sedicenti religioni del Libro: l’antichissima chiesa di San Pietro – che si sostiene essere la prima chiesa al mondo[1], scavata nell’arenaria, che Pietro stesso avrebbe fondato in fuga dalla Siria; la moschea di Habib Neccar, cristiano convertitosi all’Islam in una grotta sul monte che porta anche il suo nome; la centralissima sinagoga che custodisce antichi rotoli della Torah rivestiti in pelle di gazzella.
antiochia antakya saponeSi aggiungano i bellissimi reperti di età ellenistica, con il museo archeologico dai mosaici straordinari, e il vicino paesino di Harbiye, costruito su cascate d’acqua dolce e che fu teatro del celeberrimo mito di Apollo e Dafne, circondato infatti da enormi alberi di alloro (dafne, appunto, in turco e in arabo), dalle cui bacche si estrae un olio profumatissimo per farne saponi e cosmetici assai ricercati.
Una serie di catastrofi naturali e pessimi piani urbanistici hanno invece cancellato ogni traccia della gloriosa provincia romana (oggi si contano pochi ruderi abbandonati) e dei castelli crociati e ottomani le cui mura spuntano dalla gobba del monte come donchisciottesche spine dorsali, scoliotiche e malridotte. Moti tellurici e moti antropici, dunque, come sempre.
Per concludere, vale la pena soffermarsi su un luogo che potrebbe sintetizzare quello di cui s’è detto o accennato, Storia e storie, Stati e confini, Maggioranze e minoranze, Maiuscole e minuscole: il Meclis. Il Meclis, letteralmente Parlamento, è un elegante caffè dove viene servito un buonissimo künefe, una sorta di seadas sarda, fatta di miele e formaggio salato, altro orgoglio e simbolo locale, senza che lo sappiano i palestinesi di Nablus, che ne fanno l’orgoglio della loro cittadina in Cisgiordania.
Il Meclis, appena fuori le mura cittadine, al di là del fiume, è punto di osservazione assai privilegiato perché incarna, con la sua ubicazione e le sue vicende rocambolesche, parte della recente storia cittadina coi suoi tragicomici paradossi. Sito in un’ampia piazza voluta dal piano urbanistico del “mandato” francese, il caffè è parte integrante di una serie di edifici in stile modernista europeo dei primi del ‘900, squadrati, intagliati nel marmoreo lucore e dalla pubblica utilità… coloniale. Si susseguono infatti, in quella che è divenuta una grande rotatoria del centro cittadino: museo archeologico, banca agricola, municipio, ufficio postale e, appunto, il Meclis-Parlamento, nostro punto di osservazione che chiude l’ampia circonferenza. Accanto ad esso scorre l’Oronte detto ‘Asi, il ribelle dagli arabi, perché unico fiume del medioriente che scorre da sud a nord, nascendo nei monti del Libano per gettarsi nel mediterraneo dalle parti di Alessandretta, dopo aver attraversato la Siria.
Il Meclis sorto come cinema-cabaret negli anni francesi del 1920-1938, si ritrovò nel 1938 a svolgere niente di meno che le onorevoli funzioni di Parlamento. Sì, perché  la provincia di Hatay fu, seppure per un solo anno, Stato indipendente con Antiochia capitale, prima di divenire l’ultima provincia ad essere integrata alla Turchia in seguito a un referendum. Il Meclis quindi, da Parlamento ritornò ad essere caffè-cabaret, anzi fu per lunghi anni un’insidiosissima sala a luci rosse che mostrava, dietro gli spessi velluti cremisi tutt’oggi visibili, ciò che le tre religioni del Libro di comun concordato ripugnano.
Ergo, prima che questo bel posto divenisse il caffè odierno e preferito rendez-vour des amoureux d’Antioche, fu cabaret, Parlamento, cinema a luci rosse, e questo – va fatto notare – nonostante l’edificio sorgesse accanto alla casa del Governatore, il quale, probabilmente si dovette arrendere di fronte al popolar consenso e consesso. Tempi in cui la politica ascoltava il popolo. Moti tellurici e moti umani, come sempre. (Daud Al Ahmar)

 

Foto di copertina di Cristina

Foto interne di Valentina Marcella

[1] A questa tesi dà ragione la Cattedrale di Siracusa ove una scritta recita ECCLESIA SYRACUSANA PRIMA DIVI PETRI FILIA ET PRIMA POST ANTIOCHENAM CRISTO DICATA (La Chiesa siracusana prima figlia del divino Pietro e la prima dopo quella di Antiochia dedicata a Cristo). Ad Antiochia inoltre, secondo la tradizione, i cristiani furono appellati tali per la prima volta nella storia.

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