“Qui non sono né proprietario né affittuario,
sono solo un ospite per tutta la vita…”
Tabutta Rövaşata
(Derviş Zaim, 1996)
Ero solo una bambina quando ho scoperto di non avere un’identità. Questa ricerca di me, attraverso il genere, lo spazio, i ruoli creduti, si è trasformata in una fuga… Non volevo appartenere a un’identità specifica. Mi sarebbe bastato solo avere una stanza tutta per me. Tuttavia, questo cambiò quando andai a Trabzon, paese nativo di mia madre, o quando andai sugli altopiani di Kuşmer, dove la gente di Çaykara (villaggio greco del Ponto) andava a passare l’estate. Era senza dubbio qui il posto dove avrei voluto mettere le radici. Avrei capito solo in seguito che c’era una ragione per cui qui non possedevamo una casa.
Il motivo per cui ogni estate sin da quando ero bambina andavamo lì come ospiti era che in questo villaggio degli altipiani mentre gli uomini potevano detenere delle proprietà, le donne non ne avevano il diritto. Da quando l’ho scoperto, mi sono resa conto che quello da cui scappavo non era un’appartenenza ma un punto di appartenenza, una luce, un “qualcosa”; la mia storia è iniziata da questo punto. In quanto contraria alla proprietà, il fatto che il diritto di detenerla o meno dall’essere una scelta fosse trasformato in un obbligo, mi ha costretto a concentrarmi su questo argomento. In quanto figlia di una donna che non aveva una stanza tutta per sé nel villaggio cui risalivano le mie radici, stavo cercando la mia identità nel tempo e nello spazio della città.
Oppure stavo cercando di scappare dall’identità in cui ero imprigionata. I muri, il rumore delle strade, le risate, il ritmo e tutto ciò che apparteneva alla vita della città erano come testi di una canzone sulla perdita della mia identità. La luce era il mio grido. Ho cercato prima nel mio villaggio poi negli angoli di casa, la voce di me stessa, quella di mia madre e quella delle donne degli altopiani.
Un fotoreportage di ©Cansu Yıldıran