Giunge al termine, dopo quasi due mesi, la İstanbul Bienali, la Biennale d’arte quest’anno alla sua quindicesima edizione. Aperta lo scorso 16 settembre, come sempre organizzata dalla İKSV (Istanbul Foundation for Culture and Arts) e sponsorizzata dalla fondazione privata Koç, non ha mancato di suscitare diverse polemiche riguardo il suo carattere più o meno politico. Non certo una cosa nuova visto che da sempre la biennale di Istanbul è stata accompagnata da contestazioni. A lungo occasione di dibattito e oggetto di critiche dagli ambienti artistici turchi più radicali, inoltre, la precedente edizione, organizzata nel 2015 con il titolo ‘Saltwater: A Theory of Thought Forms’ curata dalla statunitense Carolyn Christov-Bakargiev era stata completamente schiacciata dalla tensione del clima politico dovuto alla coincidenza con le elezioni politiche.
Inaugurata per la prima volta nel 1987, alcuni anni dopo il golpe militare del 1980 e la successiva implementazione di un nuovo regime costituzionale, la Bienal rientrava nell’ambito di una serie di iniziative internazionali che intendevano lanciare la città, e il paese, sulla scena mondiale. La situazione asfittica nel paese, segnata da un marcato processo di depoliticizzazione forzata, si alternava con un’importante apertura internazionale, che era soprattutto apertura al libero mercato, con cui si intendeva fare di Istanbul una città globale. Sono gli anni in cui si cerca di attirare quanto più capitali stranieri, viene incentivato il turismo e la costruzione di grosse infrastrutture – come il secondo ponte sul Bosforo – cominciano a spuntare come funghi grossi centri commerciali, aree fiera, centri congressi e alberghi a cinque stelle. In questo contesto anche l’arte sarebbe stata utile a portare Istanbul sulla scena internazionale.
Nel corso di trent’anni, senza dubbio la Biennale ha contribuito alla crescita e alla conoscenza a livello internazionale della scena artistica turca, e di certo un grosso peso hanno anche avuto gli aiuti dell’Unione europea e sponsor privati. Per altri versi ha permesso la circolazione di idee e gli scambi con il mondo artistico di altri paesi, europei e non solo, per quanto, come spesso viene criticato, il rischio è sempre stato che inibisse iniziative artistiche minori, indipendenti che sperimentano linee creative né per forza imitative della produzione occidentale né necessariamente esotiche o orientaliste. In realtà, anche per contrasto, insieme alla Biennale c’è stata lo sviluppo di una scena alternativa, di spazi artistici autonomi, di progetti collettivi e oramai non si contano le iniziative disseminate in città organizzate in concomitanza, ma senza alcun legame, con la Biennale.
L’edizione di quest’anno si è svolta in un momento difficile per il paese, causato dalla situazione politica assai critica seguita al tentato golpe del luglio 2016 e la conseguente attuazione dello stato di emergenza. Per questo e per il susseguirsi di attentati terroristici, inoltre, Istanbul ha perso il suo carattere di attrattiva per il turismo internazionale, soprattutto europeo e occidentale, e ciò ha anche inciso inevitabilmente sulla Biennale, che a differenza di altri anni, ha visto molti meno operatori del mondo dell’arte, galleristi e investitori. Nel corso di quest’anno numerosissimi sono stati gli eventi internazionali annullati, cancellati per ragioni di sicurezza eppure, secondo quanto afferma la direttrice della Biennale, Bige Örer: “permane la speranza e la convinzione che la creazione artistica ma anche il dibattito intorno all’arte possano creare zone di apertura, per riprendere aria e sciogliere nodi…”.
La 15a Biennale di Istanbul è stata affidata ai curatori nordeuropei Elmgreen&Dragset. Un duo che conosce Istanbul dai primi anni Duemila, da quando, dopo la sua partecipazione alla settima edizione, ha cominciato a frequentare assiduamente la città per manifestazioni ed iniziative artistiche. Durante questi anni hanno visto Istanbul trasformarsi, mutare continuamente tanto dal punto di vista urbanistico quanto nelle abitudini, negli usi stessi della città. Da una riflessione sulla città è derivata la scelta del tema: il buon vicino. ‘iyi bir komşu/a good neighbour’ è infatti il titolo della 15a Biennale.
Un tema che viene esplorato in tutte le sue declinazioni e dimensioni: dal microcosmo del vicino di casa al macrocosmo della nazione e dei paesi confinanti. La casa, il quartiere, la città, il paese e il mondo ispirano tutte le opere d’arte presenti scavando nella complessità delle relazioni umane. A uno sguardo complessivo il ‘buon vicinato’ si rivela nel suo significato opposto, la diffidenza, la paura dell’altro, la paura del giudizio altrui, la chiusura su se stessi: sono queste infatti le tematiche prese in considerazione dalla maggior parte degli artisti, seppur sempre per formulare delle critiche e il desiderio di superamento.
‘Il buon vicino’ assume un significato particolare se si considera il contesto turco. Se generalmente è qui proverbiale l’ospitalità, con l’aggravarsi della polarizzazione nella società turca e l’acuirsi della repressione e della deriva autoritaria, la logica del sospetto e l’invito alla delazione hanno negli ultimi tempi segnato, come non succedeva da più di un decennio, la quotidianità dei rapporti umani. Non sono pochi i casi di persone denunciate dai vicini, il più delle volte in assenza di prove concrete. Così il tema della biennale riporta di colpo all’attualità, alla gravità della situazione in cui si ritrova oggi il paese.
Una serie di domande, stampate sui poster affissi in giro per la città, cercano di stimolare un approfondimento del tema. Chi è il buon vicino? Qualcuno che vi lascia in pace? Che vi prepara da mangiare quando siete malato? È una persona acuta? Che legge il vostro stesso giornale? Una persona che vive come te? Qualcuno che vedi di rado? Un buon vicino è qualcuno che si è appena trasferito? O qualcuno di cui non hai paura?
In una città da anni tappa e meta delle migrazioni internazionali, oggi con il più alto tasso di rifugiati siriani al mondo (sono circa 3.500 i siriani riparati in Turchia in fuga dalla guerra) il tema del buon vicino è anche un modo per ragionare sul rapporto con lo straniero e l’estraneo. Nella Biennale trova quindi anche spazio una riflessione sulle migrazioni e sui conflitti. E questo in un paese come la Turchia, il cui ruolo nei flussi migratori internazionali, e nella loro gestione, è diventato centrale oltre che decisivo nei rapporti con l’Europa. Il concetto del vicino qui viene declinato in un ragionamento più ampio sui confini sempre più netti e aspri, sull’affermazione di movimenti di destra e ultranazionalisti, in una tendenza che in modo inquietante si rivela globale.
La Biennale quest’anno si svolge in sei luoghi diversi, scelti anche per la loro stessa vicinanza, tutti nella zona di Beyoğlu, il quartiere che ha più risentito dei cambiamenti di questi ultimi anni. Luogo centrale per le trasformazioni urbane, per la rapida gentrificazione, per essere stato teatro principale delle proteste di Gezi e di molte altre manifestazioni e cortei, oggi in una fase di ulteriore cambiamento, abbandonato dal turismo europeo che l’aveva prima colonizzato e da quella fascia di popolazione più giovane, attiva, impegnata, oggi trasferitasi altrove. E non solo, quartiere storicamente europeo, abitato dalle minoranze non musulmane, oggi è un cantiere a cielo aperto, disseminato di gallerie commerciali in cui si percepisce la desolazione della crisi che attraversa il paese. È importante che tra questi luoghi in cui si svolge la Biennale, oltre a due musei – l’Istanbul Modern e il Museo Pera – ci sia la ex scuola elementare greca (Galata Özel İlköğretim Okulu), un bell’edificio, già in passato destinato a conferenze e mostre temporanee dopo la sua chiusura come edificio scolastico, riporta inevitabilmente i visitatori a ragionare su una presenza multiculturale che ha fatto la storia di Istanbul, nonostante i numerosi tentativi di cancellazione e negazione. Ancora per molti la visita per la Biennale in questo posto significa scoprire posti che nuovi non sono, ma hanno a che fare in modo importante con la storia della città e della società. Così come si può scoprire un palazzo, oggi chiamato ARK Kültür e ristrutturato in pieno stile Bauhaus, che negli anni Settanta e Ottanta era un affascinante e stravagante spazio gestito da un antiquario italiano. Oppure lo storico hammam Küçük Mustafa Pasa, costruito nel 1477 e tra i più antichi della città.
Se quest’anno si lamenta una minore attenzione internazionale alla Biennale, prevedibile anche dagli organizzatori, interessante è il programma culturale destinato soprattutto al pubblico locale, agli abitanti di Istanbul innanzitutto. Zeyno Peykünlü, l’artista che ha coordinato le attività culturali – conferenze, seminari, incontri con artisti, workshop musicali, letture – ha scelto due temi principali: ‘famiglie scelte’ e ‘destino comune’ che spingono verso ragionamenti politici rilevanti nella Turchia di oggi. Nel primo caso si stimola una riflessione sul concetto di famiglia, intesa come appartenenza, come piccolo nucleo collettivo in cui le persone si riconoscono non solo al di là dei legami di parentela, ma anche delle relazioni di genere o della provenienza. In breve la famiglia e il quartiere vengono reinterpretati, secondo la curatrice, come comunità, come microcosmi non normativi. Il tema ‘destino comune’ è tutto dedicato al rapporto uomo-natura, all’ecologia urbana, alla disumanizzazione a cui ha spinto la speculazione urbana. In entrambi i casi, così come per altre iniziative previste nell’ambito culturale, il tentativo è aprire luoghi di discussione e rivalorizzare, secondo quanto spiega la curatrice, quelle esperienze che hanno cominciato a svilupparsi dopo Gezi: esperienze collettive di solidarietà, come coabitazioni, scambi, orti urbani e anche gruppi di acquisto… che persistono nonostante ogni difficoltà e garantiscono l’esistenza di spazi indipendenti. Il programma culturale, inoltre, nicchiando a una tendenza generale che mette oramai il cibo al centro di qualsivoglia iniziativa, propone anche un evento ‘le ricette del vicino’ in cui sono stati coinvolti chef siriani per mettere in dubbio la diffidenza diffusa nei confronti del cibo straniero, e in particolare nei confronti delle piccole trattorie siriane che si sono aperte numerose a Istanbul. Ma forse l’aspetto più interessante di questo programma culturale è la scelta di inaugurarlo con un incontro con l’artista afro-americano Fred Wilson che nella sua ricerca si interroga sulle politiche di inclusione-esclusione e sulla cancellazione delle identità nella narrazione di una storia globale e che, in occasione della Biennale, ha proposto un lavoro specifico sulla presenza nera nella cultura ottomana, sulla storia degli Afro-Türk, la comunità di origine africana di cui la stessa popolazione turca sa poco o niente. Un modo per confrontarsi con la memoria e le sue omissioni nella storia turca, sulla complessità del passato e il tentativo costante di appiattimento secondo una spinta linea nazionalista. (ln)