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Terremoto / Morire di macerie, morire di politica

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Il terremoto che ha colpito la Turchia nella notte del 6 febbraio ha dimensioni enormi e ha causato un disastro di proporzioni inimmaginabili. Due terremoti che si sono succeduti nel giro di poche ore, alle 4.17 della notte con una potenza di 7.7 della scala Richter e poi alle ore 13.24 con una potenza di 7.6 hanno scosso una regione ampia, provocando una faglia lunga 300 km, e coinvolgendo una popolazione di circa 13.5 milioni di abitanti. A partire dalla prima lunga scossa di quasi due minuti si è avviato poi uno sciame sismico, a oggi, di oltre 2500 scosse di assestamento che continuano di ora in ora.

Il terremoto è stato devastante. Le cifre vanno oltre l’immaginazione. Sono state colpite città con ben oltre un milione di abitanti, una quantità di piccole cittadine e insediamenti sono stati completamente rasi al suolo.

Senza dubbio l’entità del terremoto è stata particolarmente forte per via della faglia interessata, per la potenza, perché lo sciame sismico ha incontrato delle cavità che hanno fatto da ulteriore detonatore. E il carattere eccezionale di questo sisma è stato rapidamente utilizzato dal presidente della repubblica Recep Tayyip Erdoğan per spiegare la gravità dell’impatto e la difficoltà di rispondere con efficacia e immediatezza con i soccorsi. Eppure vedere edifici che si sono accartocciati in una manciata di minuti colpisce molto in un paese colpito di frequente dai terremoti e in cui la prevenzione del rischio sismico è stata usata come argomento per legittimare grandi e piccoli interventi di edilizia, di trasformazione urbana, di progettazione, di tassazione.

Nell’agosto del 1999, tre anni prima delle elezioni che hanno condotto Erdoğan al potere, la Turchia fu colpita da un altro terribile sisma. Il terremoto di Marmara che colpì la zona egea, alcune aree di Istanbul comprese, fece secondo i dati ufficiali oltre 18mila morti. Il sisma sconvolse il paese, la macchina statale andò subito in tilt, l’incapacità totale di gestire l’emergenza trasformò l’evento naturale in un terremoto politico. In quella occasione, dopo le prime ore di totale disorganizzazione e confusione, la società civile che da qualche anno – in particolare dopo la conferenza delle Nazioni Unite Habitat II del 1996 – ragionava sulle politiche di urbanizzazione, fu in grado di mettere in moto una macchina molto efficace per offrire subito soccorso ai terremotati, per coordinare gli aiuti e poi per avviare pratiche di partecipazione cittadina alla ricostruzione, con progetti territoriali di coinvolgimento diretto degli abitanti. Di fatto la solidarietà delle prime ore che  coinvolge individui e gruppi di diversa provenienza politica e sociale, si trasforma nel tempo in un’azione politica che si fonda sulla critica allo Stato, al suo autoritarismo e sulla rivendicazione di spazi autonomi e più ampi per la società civile. Si parlò in quegli anni del terremoto come “l’atto di nascita” della società civile turca. A partire da quel momento, con il nuovo corso allora avviato dal partito AKP che vinse le elezioni nel 2002, sembrò chiaro che non si poteva non tener conto dell’alto rischio sismico in cui si trovava il paese. La prevenzione del rischio è stato l’argomento di fondo per motivare e argomentare grandi progetti di trasformazione urbana che hanno portato a Istanbul innanzitutto, ma poi anche nel resto del paese, allo sgombero di quartieri storici con successiva demolizione di edifici e ricostruzione ex novo di residenze, alla costruzione di grandi infrastrutture tra cui anche il nuovo aeroporto, pubblicizzato come il più grande di Europa, o ancora all’edificazione di ampie aree fino ad allora vincolate. Ricorrendo allo stesso argomento, costruire in modo sicuro per prevenire dai rischi delle catastrofi naturali, negli stessi anni è stato potenziato il TOKI, la struttura governativa di edilizia popolare con profonde connessioni con il settore delle imprese private, a cui è stata affidata la costruzione e ricostruzione di ampie aree in tutto il paese. Una serie di leggi emanate sin dai primi anni Duemila hanno permesso l’eliminazione di legacci burocratici e dispositivi amministrativi di controllo sulle politiche edilizie e abitative, conferendo di fatto al TOKI un’ampia agibilità, favorita dal legame diretto con l’ufficio del Primo ministro prima e poi, nel 2011, con la creazione ad hoc di un Ministero per l’ambiente e la pianificazione urbana affidato alla persona che per i sette anni precedenti aveva diretto proprio il TOKI. Questa struttura è diventata nel corso degli anni anche il simbolo della politica dell’AKP che ha fatto della trasformazione urbana e della costruzione uno dei suoi mezzi principali per la crescita economica e il consolidamento del proprio potere, il tutto incentivando sensibilmente politiche di privatizzazione in cui sono stati coinvolti soggetti direttamente legati al governo. Una politica neoliberista con profondi tratti populistici che per anni ha permesso all’AKP e al suo leader Erdoğan di poter contare su due grossi bacini elettorali: gli alleati del partito attivi nel settore privato e l’ampia fetta di popolazione a basso reddito. Una politica che però ha anche portato di fatto a un’espansione urbana rapida e senza controllo, eppure tutto sommato resa legittima grazie a diverse misure emanate tra cui anche le leggi di condono edilizio, l’ultima proprio al vaglio nei giorni che hanno preceduto la catastrofe.

Così oggi, nel 2023, dopo ventiquattro anni dal terremoto di Marmara e oltre venti dall’arrivo al potere dell’Akp di Erdoğan durante i quali si sono verificati altri disastri, compreso un terremoto a Van nel 2011, con il rischio sismico costantemente nell’agenda politica e la prevenzione come argomento principale per costruire, edificare e ristrutturare, ci ritroviamo di fronte a una tragedia immensa; migliaia di edifici polverizzati e una conta delle vittime che molto probabilmente sarà oltre decine di migliaia di persone.

Non si può credere, se non per l’opportunità politica di rilasciare dichiarazioni di fronte all’immane tragedia per cui anche i soccorsi sono risultati più che insufficienti, che tutto sia colpa della natura, di una catastrofe naturale. Parlare di “forze della natura capricciose e indomabili”, alle quali è molto difficile, se non impossibile, opporsi, come si fece nel 1999 o dell’impossibilità legittima di far fronte a un disastro di queste proporzioni, come ha detto poche ore dopo il terremoto il presidente Erdoğan, è un modo di scrollarsi di dosso gravi responsabilità politiche e sociali. Come spiegava bene Mike Davis nel suo libro Geografie della paura, il cataclisma è così descritto come un evento che improvvisamente colpisce gli abitanti di una regione, costretti a subirne le conseguenze in modo disperato, quasi fosse un segnale divino, un terribile presagio di sventura. Di fatto, ponendola in questi termini, i politici non fanno che contribuire alla “costruzione sociale del disastro naturale”, con la conseguenza diretta di eludere le responsabilità dirette e legittimare politiche di emergenza. Mentre ancora si solleva la polvere degli edifici distrutti già si parla di ricostruzione, promettendo nuovi edifici per offrire nuova vita alle città distrutte nell’arco di un anno. Intanto però l’ordine degli avvocati sta già provvedendo a stilare la lista degli imprenditori e delle società edili che hanno costruito, anche molto di recente, i palazzi e i complessi edilizi che si sono accartocciati in pochi minuti. Una lista utile ad aprire procedimenti giudiziari e a chiedere intanto che questi responsabili vengano individuati e sia loro impedito di lasciare il paese, approfittando del caos di questi primi giorni. Come del resto stava facendo uno dei proprietari di Rönesans Holding, la società che ha costruito un complesso di lusso di 250 appartamenti che ospitava circa mille persone, “un angolo di paradiso” come promettevano i filmati pubblicitari, terminato nel 2013 e che dopo dieci anni si è accasciato su se stesso con 800 persone al suo interno.

Ma i conti veri rischia di pagarli il governo ed è anche per questo che la macchina della repressione non si è fermata neanche mentre arrivavano ancora voci da sotto le macerie. Sin da subito il presidente della repubblica non ha esitato a definire “provocatori” i giornalisti o anche comuni persone che pubblicavano sui social media critiche contro l’assenza dei soccorsi. Ci sono stati fermi, arresti, inchieste aperte contro alcuni media per incitazione all’odio, limitazioni per l’accesso alle aree colpite, pressioni sui giornalisti dei media filogovernativi perché non si mostrassero le testimonianze di persone disperate che chiedevano l’arrivo delle squadre di soccorso. Le denunce sono arrivate anche al Centro europeo per la libertà di stampa e di espressione (ECPFM) che ha anche criticato la decisione del Direttorato per le comunicazioni di avviare un servizio per riportare “attività di disinformazione” da parte dei cittadini. La disinformazione è stata anche oggetto di una legge lo scorso ottobre che ha avuto l’obiettivo di restringere ulteriormente lo spazio dell’informazione, rafforzare il controllo sui social media e rendere ancora più difficile la vita ai media indipendenti. A nemmeno 48 ore dal sisma è stato bloccato twitter, strumento fondamentale utilizzato per chiedere soccorsi, far arrivare notizie dai luoghi colpiti, far circolare notizie sui dispersi. Alcune organizzazioni non governative che si sono rapidamente adoperate per fornire aiuti hanno denunciato pubblicamente e legalmente le compagnie telefoniche per aver reso difficili i collegamenti. Infine il presidente della repubblica ha dichiarato lo stato di emergenza per tre mesi, ufficialmente per facilitare le operazioni di soccorso e di assistenza, di fatto creando le condizioni per un controllo più capillare delle attività da parte di organizzazioni della società civile, associazioni, cittadini e dei media.

Il terremoto è sopraggiunto in un anno fatidico per la Turchia perché si celebra il centenario della repubblica e si svolgono le elezioni presidenziali e politiche, finora previste per il 14 maggio. Un’elezione di grande valore simbolico per il presidente che da venti anni è impegnato a costruire la “Nuova Turchia” ma anche di grandi aspettative, quasi un’ultima speranza, per una gran parte della popolazione, stremata dalla tensione politica e negli ultimi tempi anche da una crisi economica senza spiragli di ripresa. La campagna elettorale era già partita prima della devastazione di questi giorni e di certo non si è fermata. È sicuramente un banco di prova ma anche qui si misura lo squilibrio dei mezzi e degli strumenti di un potere centrale che anche davanti a un paese sotto shock continua a chiudere spazi e a minacciare, e di una società civile articolata, tenace che però fa i conti con la condizione di fragilità in cui è stata posta negli ultimi anni, con arresti più o meno emblematici, forzando molte persone all’esilio e istigando spesso anche l’autocensura. Forse è anche questa la lezione che si apprende dal terremoto di Marmara del 1999: se da un lato la politica ha solo usato la prevenzione del rischio sismico per avviare politiche di profitto continuando a costruire case di carta, dall’altro ha eroso gli spazi di azione e d’intervento di gruppi, collettivi, associazioni che si battono per un progetto sociale e politico di tutt’altra natura, progressista, pluralista. Eppure è sempre sorprendente come questi stessi gruppi non demordano e siano pronti a riscoprire vecchi e nuovi repertori d’azione, convinti oggi che il disastro più grande del paese sia stata la gestione del potere politico più che l’energia sprigionata dal terremoto. (ln)


Foto in copertina: ©ItaloRondinella
Questo articolo è stato pubblicato anche su NapoliMONiTOR

Kaleydoskop appoggia, per le donazioni a favore delle persone colpite dal terremoto, le campagne di alcune organizzazioni che agiscono in modo trasparente e affidabile > qui per saperne di più

 

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