Nuri Bilge Ceylan è il più importante regista turco. Prima di lui il cinema turco era conosciuto solo per Yılmaz Güney, cineasta curdo e comunista, che nel 1982 fu insignito della Palma d’oro per il film Yol/La Strada, girato all’indomani del golpe militare del 1980 mentre era in carcere grazie all’aiuto del suo assistente Şerif Gören. Come Yılmaz Güney, Ceylan deve la sua notorietà internazionale soprattutto al festival di Cannes, da quando, già nel 2003, vinse il Grand Prix per Uzak. Quel film, già dalla sua locandina che raffigurava una insolita Istanbul coperta di neve, irrompeva in un immaginario europeo sulla Turchia stantio. La sua vittoria a Cannes sembrò poi il preludio della sorprendente scalata della Turchia sullo scenario internazionale. Da allora Ceylan ha girato altri cinque lungometraggi e ottenuto sempre a Cannes, dove aveva già presentato il suo primo cortometraggio, Koza del 1995, diversi riconoscimenti: la Palma d’oro nel 2014 per Sonno di inverno, ancora il Grand Prix della Giuria per C’era una volta in Anatolia (2011), nel 2008 il premio alla regia per Tre scimmie e ancora prima il premio Fipresci per Kasaba (1997), Clouds of May (2006) e Iklimler (2014).
La maestria e il successo di Nuri Bilge Ceylan hanno permesso al cinema turco di affermarsi fuori dai confini nazionali e hanno attirato l’attenzione su quello che è stato poi definito il Nuovo cinema turco (con lui Semih Kaplanoğlu, Yeşim Ustaoğlu, Zeki Demirkubuz, Reha Erdem), un cinema di qualità, caratterizzato da lunghi piani sequenza e moltissimi silenzi, una fotografia che si estende negli sconfinati paesaggi dell’Anatolia o del cemento metropolitano di Istanbul. E un’attenzione alle pieghe più intime della solitudine degli individui, quasi un destino comune che si reitera senza scampo nelle vite dei cittadini di un paese soffocato dalla disciplina militare, dai traumi del passato, dalle memorie taciute e dalla repressione dei governi. Non si tratta di un cinema militante ma tutto sommato nella sua ascesa, nel suo successo, nelle sue narrazioni e nei suoi quadri racconta di un paese pieno di contraddizioni, di un’industria cinematografica avanzata (ora spinta soprattutto nelle serie tv), di un’autonomia ostinata della cultura e di fughe che a volte si riducono a vortici dell’animo.
Luglio 2015. Ce ne stiamo a non far niente nella nostra casa estiva di Assos. Sono giorni di festa e le spiagge sono molto affollate. A un paio d’ore di distanza c’è un paesino dove ho trascorso i migliori anni della mia infanzia. Anche se non ha più la bellezza e il vecchio fascino di una volta, è in mezzo ai pini e l’aria è ancora buona. Così decidiamo di andare lì per una piccola gita.
Ci mettiamo in viaggio con una bella comitiva, piena di bambini. Mentre passiamo per diversi paesi della zona finiamo in un paesino dove vivono alcuni miei parenti. C’è un insegnante elementare sposato con una mia parente. Ha una personalità interessante, un pensiero anticonformista, un modo di conversare che mi piace molto. Tutto il paese lo chiama ‘Maestro’. Lo incrociamo per caso. È appena andato in pensione ed è tornato a vivere al paese. Sta realizzando il sogno che ha covato a lungo di mettere su un piccolo allevamento in un terreno arido di proprietà di suo padre. Tutti sapevano che il Maestro non era mai andato d’accordo con il padre. Per questo devo essere sembrato chiaramente sorpreso quando aveva provato a giustificarsi sottolineando l’irrimediabile caratteraccio del padre: “Ho un fratello più grande. Se facessero un concorso per la persona più calma senza dubbio lui otterrebbe il primo posto. Eppure il vecchio ha cacciato anche lui”.
La casa dei parenti per via delle feste era piena di gente. Dopo pranzo, il Maestro e io siamo usciti in giardino e ci siamo seduti su dei tronchi di legno. C’era qualcosa nelle parole del Maestro che suscitavano un profondo senso di colpa, non so se fosse per quello che andava raccontando oppure l’espressione del suo volto mentre parlava o ancora quel sorriso ostentato anche mentre raccontava le peggiori cose che gli erano capitate. Era così felice nel suo mondo di 10-15 pecore e infiorettava il discorso con dettagli così strani che finivamo per arrabbiarci con noi stessi perché, pur possedendo tante cose, non riuscivamo a liberarci di un senso di malinconia.
Mentre il sole cominciava ad abbassarsi, volle portarci al terreno per mostrarci gli agnellini appena nati. Ci avviammo con mia moglie Ebru, i bambini e qualche altro parente. Era una bellissima giornata piena di mille particolari meravigliosi: pecore, agnelli, fontane, ruscelli, querce, il fruscio delle foglie. I bambini si divertivano molto. Presero gli agnelli in braccio e li accarezzarono, forse fu la prima volta che mangiarono le pere e le more colte direttamente dai rami, che videro le tartarughe e montarono su un asino. C’era però qualcosa che aveva attirato la mia attenzione. Mentre noi ascoltavamo con grande interesse questo uomo che parlava con straordinaria passione per la vita della bellezza degli agnellini, del colore dei campi, dell’odore della terra, tutti gli altri abitanti del villaggio presero a guardare nel vuoto come annoiati, quasi con un senso di vergogna. Era come una protesta silenziosa. Ma era come se il Maestro non se ne curasse. Continuava a raccontare con grande entusiasmo, senza perdere il ritmo delle parole, ridendo all’occorrenza per quel che diceva, e continuando a parlare degli agnellini, del colore dei prati e dell’odore della terra.
Sulla via del ritorno verso Assos io e Ebru discutemmo un po’ dell’atteggiamento delle persone nei confronti del Maestro. Abituato a situazioni simili con mio padre, attribuii quel loro comportamento al fatto che gli abitanti del paese consideravano quel tipo di discorsi vuoti, inutili, infantili e senza senso.
In questi territori non c’è nessun meccanismo che premi l’originalità o la diversità. Coloro che si sentono profondamente diversi in un modo ritenuto illegittimo secondo le convenzioni della società vedono la propria forza di volontà indebolirsi dal punto di vista etico. Queste persone si affaticano per dare un senso alle contraddizioni intrinseche alla propria esistenza alienata e oscillano tra l’inadeguatezza di dare una forma creativa a queste contraddizioni e l’impossibilità di opporvisi. Percepiscono la propria differenza come un reato che bisogna nascondere, come una malattia o come una gobba da portarsi sulle spalle per tutta la vita. Ma questa realtà che si impone loro in modo incondizionato il più delle volte cambia veste e si mostra nelle forme più strane e assurde.
I sentimenti che ci attraversarono mentre conversavamo sulla via del ritorno ci fecero cominciare a pensare che poteva trattarsi del soggetto di un film. Fu allora che ci ricordammo del figlio del Maestro, Akın, anche lui insegnante. Avevamo sentito dire che Akın non aveva ricevuto l’assegnazione a scuola e lavorava per un giornale locale a Çanakkale. Pensammo che fosse una buona idea contattarlo e parlargliene.
Una settimana dopo, una domenica di fine luglio, chiamai Akın e lo incontrai a Çanakkale, a un’ora di distanza da Assos. Ci sedemmo in uno di quei ampi e provvisori giardini da tè vicino al mare e parlammo per ore. Gli raccontai in breve delle analogie tra suo padre e il mio, della loro solitudine che consideravo preziosa ma tragica, e anche del fatto che stavamo lavorando a un’altra sceneggiatura ma che avremmo voluto fare in seguito un film su questo tema. Per non perdere ulteriore tempo, mentre io ero impegnato con l’altro film, gli chiesi di mettere per iscritto le sue memorie, i suoi ricordi di infanzia, delle riflessioni sul rapporto con il padre e di fare alcune ricerche per conto mio. Dicendo così ero ben consapevole del fatto che Akın fosse molto interessato alla scrittura e che avesse già scritto un paio di libri. Sua madre me ne aveva dato una copia quando ero andato al paese qualche anno prima ma, a essere onesti, non l’avevo letto. Per quanto avessi incontrato Akın in diverse occasioni al paese o a Istanbul, non avevamo mai parlato molto. Era un ragazzo introverso e distaccato. E quando parlavamo con il padre non prendeva mai parte alla conversazione. Ma quando conversammo in quel giardino da tè a Çanakkale rimasi sorpreso di quanto fosse intelligente e informato. Intanto aveva letto moltissimo. Conosceva ogni libro che menzionavo. Aveva letto molto più di quanto ci si aspettasse da un trentenne. E mentre da un lato perseguiva la propria indipendenza, dall’altro si interessava a qualcosa che invece non suscitava il benché minimo interesse tra chi lo circondava, la letteratura. Insomma era anche lui un altro ‘solitario’. L’esistenza nevrotica che aveva suscitato la nostra curiosità per il mondo di suo padre, si presentava di nuovo dinanzi a noi sotto un’altra forma. Questo ci sarebbe servito solo per ampliare i nostri orizzonti per il film che volevamo girare.
Trascorsero molti mesi. Tornammo a Istanbul. Ebru e io continuavamo a lavorare all’altra sceneggiatura. Tra l’altro, non ricevendo notizie da Akın, io mi ero quasi dimenticato di quel progetto, fino a quando, verso gli inizi di ottobre, trovammo nella cassetta della posta un messaggio di Akın. Ci aveva inviato un testo di ottanta pagine. Era così piacevole da leggere che lo finii tutto d’un fiato. E mi piacque molto. Akın aveva scritto un testo secondo me straordinario che metteva al centro il rapporto con suo padre dall’infanzia in poi, in cui comparivano anche episodi della sua vita. Mi sentii così vicino ad alcuni di quegli episodi che ebbi di colpo il desiderio di abbandonare la sceneggiatura su cui stavamo lavorando e di iniziare a lavorare su quest’altra. Mostrai subito il testo a Ebru e anche a lei piacque molto. Era stato scritto in modo sorprendentemente sincero e aperto. L’autore non prendeva precauzioni per proteggere se stesso, né tantomeno si osannava, dichiarava i suoi sentimenti più deboli, più bassi, le realtà più crudeli che chiunque altro non avrebbe avuto il coraggio di condividere nemmeno in parte. Questo suo sguardo realistico e spietato nei confronti di se stesso ci diede la possibilità di affrontare alcune questioni direttamente, senza perdere tempo in inutili premesse. Per quanto non lo avesse dato a vedere durante la nostra conversazione a Çanakkale, il testo mostrava che Akın avesse capito molto bene le mie intenzioni e, anzi, conteneva un senso di sfida e una temerarietà che spronava il progetto in modo per me insperato. Decidemmo di invitare Akın a Istanbul per tentare di lavorare insieme al soggetto.
Akın venne. Ogni giorno, per un mese intero senza interruzioni, lui io ed Ebru ce ne stemmo nel mio ufficio per parlare e lavorare. Cercammo di costruire un soggetto completamente nuovo a partire da quello che aveva scritto Akın. Chiaramente il suo testo comprendeva un arco di tempo molto esteso che andava dall’infanzia alla giovinezza. Noi invece ci orientammo per una storia ambientata nel presente. Inoltre, per effetto di quanto aveva scritto, l’intenzione di mettere al centro il personaggio del padre come avevamo ideato all’inizio, lasciò il passo all’idea di concentrarci sulla figura del ragazzo, cioè del figlio. Decidemmo quindi di sviluppare il personaggio del padre a partire dalla sua relazione con il figlio e di mettere in risalto le sue peculiarità soffermandoci sullo scontro tra le due figure. Dopo aver impiegato un mese per costruire una bozza su cui poi continuare a lavorare, seguitammo via email per altri otto-nove mesi. Così facendo siamo arrivati alla sceneggiatura per le riprese che però non è mai stata ultimata del tutto, né mentre giravamo, né durante il montaggio, sempre alla ricerca di un equilibrio migliore.
Nel frattempo avevo letto anche i libri di Akın. Li aveva scritti all’età di appena ventitré anni, quando era uno studente universitario a Çanakkale. Ero rimasto profondamente colpito. C’erano dei racconti che mi erano piaciuti davvero molto. Uno di questi era “La solitudine del pero selvatico” che avrebbe poi ispirato il titolo del film. Da questo racconto abbiamo preso molte immagini che pensavamo di utilizzare a mo’ di prologo del film in una scena della scuola del villaggio che ricordava la giovinezza del padre, che però sfortunatamente ho dovuto eliminare durante il montaggio. Dato che il libro conteneva molti particolari sul nostro tema, prendemmo da esso diverse parti o dettagli. Anche se molti sono stati poi lasciati fuori in fase di montaggio a vantaggio di una struttura più organica, c’è ancora molto del libro nel film.
Alla fine, avevamo preso un tale ritmo che fummo incapaci di fermarci e scrivemmo così tanto da superare persino Winter Sleep [it. Il Regno di Inverno, 2014]. Grazie alla forma flessibile, elastica della storia, volli girare tutto e arrivare al montaggio con un sacco di materiale per poter dare forma al film in quella fase. Per questo motivo, molte delle scene che abbiamo girato così come diversi personaggi non ci sono nel film. Hanno dovuto sacrificarsi a favore di un certo equilibrio o armonia che immaginavo potesse essere raggiunta solo nel montaggio. Spero si siano sacrificati a fin di bene.
3 maggio 2018
Questo articolo è stato pubblicato nella versione originale su Ons Dergi n.2, 2018 con il titolo ‘”AHLAT AĞACI” HAKKINDA… // Nuri Bilge Ceylan” e ripreso nella traduzione di Lea Nocera da Gli Asini n. 58/59, dic 2018-gen 2019 con il titolo “L’albero dei frutti selvatici di Nuri Bilge Ceylan”.