Turchia, cultura e società

Orhan Pamuk racconta ‘Le notti della peste’ (parte seconda)

in Scritture

Nel mese di marzo 2021 è uscito in Turchia l’ultimo romanzo di Orhan Pamuk, Veba Geceleri (Le notti della peste). Vi proponiamo la seconda parte di un’intervista, di cui abbiamo già pubblicato la prima parte, al premio Nobel per la letteratura realizzata da Şeyda Öztürk e pubblicata sul giornale online gazete Duvar.


Ho fatto delle ricerche sui dettagli storici da lei forniti e le faccio domande al riguardo perché questi dettagli possono essere molto utili anche per il lettore curioso.

Devo dire di aver imparato molto anche da Nuran Yıldırım, i cui libri sulla storia medica degli ultimi centocinquant’anni sono indispensabili. Anni fa, vedere sulla copertina della rivista Tarih ve Toplum (Storia e Società) che era stato pubblicato il suo articolo intitolato “Karantina İstemezük” (Non vogliamo la quarantena), è stato come un fulmine a ciel sereno. Non dimentichi che sono anni che penso a questo romanzo. Ho continuamente in mente cinque o sei romanzi e in relazione a questi si lega la mia attenzione e il mio piacere di acquistare libri. Il libro di Mesut Ayar dal titolo Osmanlı Devleti’nde Kolera (Il colera nello stato ottomano), gli scritti sull’epidemia della peste a Izmir del 1900, oppure il libro di Gülden Sarıyıldız Hicaz Karantina Teşkilatı (La gestione della quarantena nell’Hijaz) sono stati molto importanti per me.

C’è una ulteriore connessione interessante di cui dobbiamo parlare. Quando ho letto la prima bozza del romanzo stavamo attraversando i primi mesi della pandemia; negli scritti che si proponevano di interpretare la situazione in cui ci trovavamo in quel periodo emergevano sempre i temi dell’amministrazione governativa, della salute e della gestione dei cittadini. Anche io leggevo il suo romanzo come un romanzo in cui l’amministrazione dello stato e dei morti ha un ruolo di primo piano e proprio nella pagina in cui il giornalista greco Manolis legge Il Leviatano, in quel momento mi è venuto in mente l’articolo “Leviathan in Lockdown” pubblicato dalla London Review of Books e gliel’ho fatto sapere.

Si, nel mio romanzo il giornalista dissidente di Minger, Manolis, leggeva il libro filosofico intitolato Il Leviatano di Hobbes nascondendosi dal governatore. Ma non conoscevo l’immagine scelta, d’accordo con l’autore, del frontespizio della prima edizione de Il Leviatano. L’ho saputo grazie a lei. La prego, racconti lei questa parte della storia.

L’autore dell’articolo, partendo dai particolari dell’immagine del frontespizio de Il Leviatano di Thomas Hobbes, faceva alcune deduzioni sui rapporti tra le epidemie e la formazione dello stato civile e il contratto sociale. Nell’immagine non si vedono altre figure oltre a quella di alcune guardie giurate in uno spazio pubblico che appare come una terra completamente desolata in cui si erge l’egemone governatore il cui busto è composto dai suoi sudditi. Ma guardando con attenzione si vedono proprio nel mezzo le figure di due dottori della peste. Garantendo la protezione dei cittadini, tirandoli fuori dalla loro condizione naturale e annunciando il contratto sociale, l’autore sostiene che lo stato, nell’imporre sanzioni e nello stabilire così la civiltà, sia essenzialmente uno stato di peste.

Abbiamo detto che Le notti della peste può essere letto come il racconto di un’amministrazione governativa sia per il silenzio e l’assenza di una popolazione ridotta alla posizione degradata di trasportatrice di un virus, sia per il modo in cui la popolazione viene assoggettata da norme disciplinari, dall’uso della forza e da metodi di isolamento e reclusione: lo stato moderno, vi sia o meno il pericolo dell’epidemia, è sempre uno stato di peste.

Dopo aver appreso da lei queste cose e dopo essermi ricordato di come le persone, in un’epidemia di peste, abbiano bisogno di uno stato rigido, anch’io ho riportato nel disegno della copertina di Le notti della peste due dettagli dell’immagine del frontespizio de Il Leviatano. Volevo che Ahmet Işıkçı facesse un’aggiunta al disegno. Secondo me la casa editrice Yapı Kredi dovrebbe estrarre a sorte tra coloro che riusciranno a scovare questi due piccoli riferimenti e premiarli. I temi sono in realtà l’epidemia, lo stato e la rivolta. Ora non interessa molto, tuttavia, quando si scriverà la storia di questi giorni che stiamo vivendo, si individueranno rapporti più forti ed espliciti tra l’insuccesso dello stato americano nel proteggere la sua popolazione dall’epidemia e le rivolte del 2020 contro il maltrattamento (presente da secoli) verso i neri.

Un altro tema del suo romanzo è il nazionalismo.

Si, soprattutto il nazionalismo del mondo post-coloniale e dei paesi che sono sotto la pressione dell’imperialismo. Ma il mio esempio di nazionalismo non è solo quello turco come subito si è portati a credere. Tuttavia, alcuni miei amici e alcuni critici hanno considerato quelle parti del romanzo come una mera allegoria del nazionalismo turco. Ho scritto il romanzo tenendo in considerazione molteplici storie nazionali che hanno prodotto molti altri nazionalismi. Ad esempio, cambiare i nomi delle strade come prima azione di un nuovo stato… Questo è stata soprattutto la prima preoccupazione dello stato greco… il fatto che l’identità nazionale non si basi sulla religione… il fatto che ci fosse una metà musulmana e una cristiana… il fatto che la priorità di uno stato-nazione e di un’identità non venga dalla religione ma dalla lingua e dal linguaggio. Queste caratteristiche della mia Minger la differenziano dalla Turchia.

Non c’è un aspetto allegorico nel suo romanzo?

Si, ma non è importante come si crede. L’isola di Minger non è il punto di partenza di un’allegoria che mostra la Turchia. Al massimo è l’allegoria del periodo post-coloniale e della fondazione del nazionalismo e dello stato-nazione nell’epoca dell’imperialismo. Nella mia biblioteca ci sono molti libri sulle teorie nazionaliste, su nuove interessanti teorie e spiegazioni accompagnate da esempi. Non soltanto il nazionalismo albanese, arabo, curdo e naturalmente quello turco, ma anche il nazionalismo serbo, greco e bulgaro solleticano la mia curiosità. Il tema della lingua nel nazionalismo turco non è determinante quanto ne Le notti della peste. Ad esempio per me è un tema ancora più importante il fatto che la classe privilegiata del nazionalismo non parlasse e non potesse parlare in casa, come il popolo, la lingua dello stato-nazione. Perché per essere un privilegiato era necessario essere stato un soldato o un funzionario del precedente impero. Il mio romanzo è stato scritto, con spirito giocoso, come replica a fatti reali come questo e alle domande ipotetiche, ai paradossi e alle contraddizioni generati da essi. In aggiunta, per quanto riguarda la lingua e la nazione, ci sono cose che in questi ultimi trent’anni ho vissuto non leggendole sui libri, ma guardando con stupore la realtà.

Ora sono curiosa di quello che ha vissuto.

A partire dalla metà degli anni Novanta, dal momento che i miei libri sono stati tradotti, ho constatato che le tre lingue oggi chiamate bosniaco, croato, serbo, persino il montenegrino, sono state separate con difficoltà. Questi “linguaggi” al tempo della Iugoslavia non erano nient’altro che un’unica lingua. I traduttori “bosniaci”, “serbi”, “croati”, prima usavano questa lingua comune. Erano amici tra loro d’altronde. Ma con il dissolvimento della Iugoslavia a seguito della Guerra Civile ho avuto un traduttore diverso per ogni lingua. Un altro esempio: se in passato la Norvegia e la Danimarca erano un unico paese ed erano governate da un unico stato, i libri di Ibsen, che oggi è scrittore nazionale della Norvegia, erano pubblicati per primo a Copenhagen in danese. In seguito, queste due lingue sono state separate e il norvegese è diventato un “linguaggio” a sé stante. Ora, ad esempio, ho sia un traduttore in danese che uno in norvegese. Oppure ho un traduttore in portoghese e uno nella lingua del Brasile. Scherzo con i miei amici traduttori quando chiedo loro “vi copiate a vicenda?”.

Ama raccontare i paesaggi di Minger. Ho visto le foto e le immagini che ha scelto per i video che ha fatto… Ci sono immagini del paesaggio.

Concordo con le teorie che stabiliscono una relazione tra paesaggio e nazionalismo… L’immagine del paesaggio ha a che fare con l’immaginare un paese e con il senso di appartenenza ad esso. I paesaggi degli artisti del Romanticismo tedesco nel XIX secolo, ad esempio, assumono un aspetto che incita sentimenti nazionalisti.

 Vorrei che parlassimo del tema della lingua nel romanzo storico. Come deve essere l’uso della lingua nel romanzo storico?

La cosa migliore è offrire un esempio da Il mio nome è rosso: nella parte iniziale un cane parla in prima persona. “Io, il cane” è tra i capitoli più amati e conosciuti del romanzo. Lì il lettore crede che il cane parli. Il cane non è che usa parole strane e desuete perché si trova in un romanzo storico. Né fa il verso del cane “bau bau”. Parla con la lingua di oggi… Il linguaggio nel romanzo storico non si esprime attraverso l’impiego di termini arcaici oppure maneggiando (la maggior parte delle volte in maniera maldestra) parole che nessuno conosce o che conosce appena. Al contrario, l’abilità consiste nel persuadere il lettore con l’uso di termini attuali che la storia ha luogo nel passato. Questo lo si ottiene lavorando sulla struttura della lingua, facendo variazioni, giocando con le espressioni, cambiando il senso delle parole.

Mentre ci si preparava a stampare il romanzo, altri editori mi hanno suggerito di usare il termine şark per “oriente” (invece di doğu, “est”, ndt), era questa la parola usata da tutti nel 1901. Sarebbe sbagliato se la storica Mina di Minger, nostra contemporanea e voce narrante del romanzo, usasse il termine şark, perché lei racconta una storia per coloro che vivono oggi. Ho pensato molto a questo tema e mi è anche venuto in mente di scriverci un articolo. Ho anche trovato un bel titolo: “şark o doğu? La lingua nel romanzo storico”. Verso la fine del romanzo mi sono lasciato influenzare dalle pressioni ricevute e ho aumentato la percentuale di parole arcaiche soprattutto nei discorsi tra i protagonisti. Su indicazione degli editori, i miei protagonisti utilizzano il termine müddeiumumi al posto del più attuale savcı per designare il procuratore generale. Ma ho sempre provato un certo disagio a scrivere una parola vecchia che uso molto raramente al posto di una alla quale sono abituato; sentivo che quello che avevo fatto era artificioso e poco sincero. E poi ci sono autori di romanzi storici che usano parole vecchie con ostentazione come se fossero una decorazione o un abbellimento. Ci sono scrittori o poeti come James Joyce e Ece Ayhan che indugiano sulle parole e ne sono quasi innamorati. Io non sono tra questi. Ho in mente un’immagine quando scrivo romanzi. Vocaboli e parole servono solo ad esprimerla nel migliore dei modi. Secondo me le parole devono mostrare l’immagine che è nella testa dello scrittore, non devono coprirla, ma farla uscire.

Quando racconta le sue storie fa uso di moltissime immagini.

Per enfatizzare le “scene storiche”. Fin dalla mia infanzia ho sempre amato le immagini sui francobolli, i soldi, le enciclopedie, i libri di testo, le immagini d’epoca sui giornali e le riviste, le rubriche storiche e le raffigurazioni sulle riviste storiche di moda. (L’Enciclopedia di Istanbul di Reşat Ekrem Koçu è per me uno dei migliori esempi di congiuntura tra immagine e storia). Durante la mia giovinezza guardavo le immagini nei volumi delle enciclopedie storiche illustrate e nei manuali di storia, e mi domandavo cosa ci fosse alla base di quell’istante raffigurato. Oppure mi chiedevo se quell’istante raffigurato fosse davvero accaduto.

La scoperta della fotografia risale a 180 anni fa, la sua diffusione invece a un secolo fa… Prima di allora non esisteva la fotografia di episodi storici, si trattava solo di raffigurazioni costruite. I libri di storia sono pieni di immagini ma molto probabilmente chi ha fatto quei disegni non ha visto quegli episodi. Amo queste immagini. La maggior parte si basa sulla finzione e l’ideologia. (I più amati autori di romanzi sulla peste non hanno vissuto l’epidemia). Penso che le immagini sui libri di storia aggiungano agli avvenimenti significato e valore tanto quanto i testi. La storia prende vita nelle nostre teste per la maggior parte attraverso le immagini, non attraverso le parole. Per quanto mi riguarda, i nostri ricordi sono una galleria di immagini. Le nostre memorie non sono una pioggia o un agglomerato di parole, neppure in sostanza un testo o un libro, sono rappresentazioni e sogni. Successivamente, se vogliamo, traslitteriamo quelle immagini in parole. Ovvero scriviamo i nostri ricordi… Un altro esempio: Quando dopo anni ci ricordiamo di un romanzo che abbiamo amato e che è un qualcosa che consiste solo di parole, non ci tornano in mente le parole, ma scene e immagini. Parlando di passato, non sono i testi ma le immagini a balenarmi testa, alcune si scoloriscono e si perdono, altre invece trattengono il loro colore con l’aiuto delle fotografie e degli oggetti. Per questo disegno sui miei diari. I musei, secondo me, sono importanti perché ci ricordano il passato mostrandocelo. Per un individuo il passato è fondamentalmente un’immagine. Molto probabilmente è così anche per la nazione. Yahya Kemal ne era consapevole e in quanto membro di una nazione che non possedeva un passato di immagini si rammaricava dicendo “magari…”. Mi piace molto quando Yahya Kemal afferma: “Se avessimo avuto una nostra immagine e una nostra prosa, saremmo stati una nazione diversa”. Chissà quale nazione saremmo stati. Una volta raffigurata, cosa e come avremmo visto? Questo sarà il tema e il materiale del mio prossimo romanzo. Si tratterà della storia di un artista appassionato ai temi dell’immagine e della metafisica, la cui vita sotto alcuni aspetti mi somiglia.


Traduzione dal turco di Irene Cazzato.

Le illustrazioni del romanzo sono state disegnate e pubblicate dall’autore stesso. 

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