Tra speranza e disperazione. Berke Göl racconta la censura nei festival e nelle sale turche
Dopo la morte di sua nonna, Jan, un ragazzo nato a Parigi e cresciuto a New York, visita per la prima volta la Turchia, terra natia di suo padre. Spinto dal desiderio di scoprire le origini della canzone che gli cantava la nonna, il viaggio lo porta a Dersim, una città zaza (curda) della Turchia orientale. Camminando nei pressi della piazza cittadina, Jan si imbatte nelle vecchie fotografie che commemorano il massacro di Dersim, in cui gli zaza si ribellarono contro lo Stato turco nel 1938 e furono uccisi a migliaia dalle truppe governative. Quando si avvicina ad una foto in particolare lo schermo improvvisamente si oscura, mentre l’audio continua.
La scritta recita: “Non potete vedere questa scena perché la Commissione di vigilanza della Direzione generale del cinema del ministero turco della cultura e del turismo l’ha giudicata inappropriata”.
Dopo un breve momento di sorpresa, il pubblico del Teatro Atlas di Istanbul inizia ad applaudire in segno di solidarietà ai realizzatori del film. Più avanti nel film accade la stessa cosa, un’altra volta, durando leggermente di più, e gli spettatori applaudono di nuovo.
Il film in questione è Zer (2017) dell’acclamato regista Kazım Öz, candidato al Tulipano d’Oro al concorso nazionale della 36a edizione dell’Istanbul Film Festival che si è tenuto lo scorso aprile. Il caso è solo l’ultimo della lunga e travagliata storia della battaglia contro la censura del cinema in Turchia. I tempi cambiano, cambiano le condizioni, ma c’è sempre un pretesto per la censura. In qualsiasi momento è possibile trovare innumerevoli casi in cui lo Stato limita la libertà d’espressione dei registi. Ad ogni modo è possibile affermare che un periodo relativamente “liberale” è ora finito, e casi simili sono aumentati a dismisura negli ultimi cinque anni, dal momento in cui il governo ha attuato politiche più autoritarie e repressive dopo le proteste di Gezi dell’estate 2013.
Nell’ottobre 2014, Yeryüzü Aşkın Yüzü Oluncaya Dek (L’amore cambierà il mondo), un documentario sul movimento di Gezi (regista Reyan Tuvi) che era stato scelto dal comitato di selezione dell’Antalya Film Festival per competere nella sezione dedicata ai documentari, è stato rimosso dalla programmazione, probabilmente a causa di pressioni del governo (o forse per un’auto-censura dell’amministrazione del festival). Probabilmente a causa di un graffito che appare brevemente in una scena e che contiene un insulto al presidente Recep Tayyip Erdoğan, e quindi una violazione del codice penale turco. Registi e critici hanno chiesto che il film fosse reinserito nella programmazione, in linea con la decisione iniziale del comitato. Quando la richiesta è stata rigettata dall’amministrazione del festival, si è scatenata una forte reazione, culminata in una protesta organizzata da tutti i registi dei documentari che hanno ritirato le proprie opere dal festival, causando la cancellazione dell’intera competizione. Ad oggi l’Antalya Film Festival non ha organizzato nessun concorso nazionale di documentari.
Alcuni mesi dopo, nell’aprile 2015, un fatto molto simile è successo all’Istanbul Film Festival. La proiezione di Bakur (Nord, di Çayan Demirel e Ertuğrul Mavioğlu), un documentario sulla vita quotidiana dei combattenti del PKK durante il “processo di pace”, è stato cancellato all’ultimo minuto. Il Festival ha dichiarato che il film non sarebbe stato proiettato perché i produttori non erano riusciti a fornire il documento ufficiale di registrazione rilasciato dal Ministero della Cultura e del Turismo, nonostante questo stesso documento in precedenza non fosse mai stato chiesto per le proiezioni al festival di film nazionali. In brevissimo tempo sono stati organizzati da parte dei registi dibattiti pubblici su come gestire la situazione, ci sono state dichiarazioni di solidarietà e proteste, ma alla fine, il film non ha potuto raggiungere il pubblico, fatta eccezione per piccoli festival indipendenti che sono riusciti a resistere alle pressioni statali e per alcune proiezioni speciali.
Da allora ci sono state tante altre occasioni in cui i film sono stati proibiti, le proiezioni cancellate e i permessi negati. Lo Stato si è impegnato sempre più nell’ostacolare la libera espressione artistica. Gradualmente la censura è diventata, forse, il problema più importante al centro della vita culturale in Turchia.
Registi per la pace
Il successo internazionale riscosso dal cinema di Turchia durante la metà degli anni 2000 deve molto (insieme ad altre cose) al supporto del Ministero della Cultura e del Turismo. In nome di una legge specifica promulgata nel 2004, diversi film, documentari e cortometraggi sono stati parzialmente finanziati dallo Stato. Sebbene la struttura del comitato di selezione sia stata sempre fonte di controversie e il metodo di funzionamento del meccanismo di supporto sia stato fortemente criticato, il supporto statale ha di certo aiutato aspiranti registi a realizzare i propri film. Euroimages, il principale fondo europeo di sostegno per il cinema, richiede che i progetti siano sostenuti a livello nazionale per poter presentare la richiesta, quindi il supporto statale è stato cruciale per far partire i progetti. Durante questo periodo la produzione cinematografica annuale in Turchia è moltiplicata, i film nazionali hanno fatto registrare numeri più alti ai botteghini (sebbene, ovviamente questo sia un dato ascrivibile più alle commedie popolari e agli horror che ai film indipendenti), e molti giovani registi hanno guadagnato una certa fama internazionale per i propri lavori. Tuttavia, alla luce degli eventi più recenti sia i dubbi riguardo i meccanismi di finanziamento, sia le critiche nei suoi confronti, sono aumentati.
Nel gennaio 2016 circa duemila docenti hanno sottoscritto una petizione, che chiedeva al governo di fermare le continue operazioni militari nelle province orientali del Paese, abitate in prevalenza da curdi. Il “processo di pace” tra il governo ed il PKK è ufficialmente finito in seguito alle elezioni di giugno 2015 e le ostilità sono riprese su larga scala. Per aver firmato e condiviso la petizione, gli “accademici per la pace” sono stati accusati di “propaganda terroristica” dagli ufficiali statali, subendo anche condanne penali. Alcuni di loro sono stati minacciati, molti hanno perso il lavoro e diversi sono stati incarcerati. I registi sono stati tra i primi a mostrare solidarietà agli accademici. Circa quattromila registi hanno firmato una petizione dichiarando il loro sostegno alle richieste degli accademici. La risposta del governo è arrivata nei primi mesi 2017, quando sono stati negati i fondi statali a tutti i progetti presentati dai registi che avevano firmato la petizione. Tra questi ci sono anche alcuni registi che hanno avuto importanti riconoscimenti internazionali come Emin Alper, il cui film Abluka (Frenesia, 2015) ha vinto il Premio Speciale della Giuria alla 72a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, e Tolga Karaçelik, il cui Sarmaşık (Edera, 2015) ha concorso al Sundance Film Festival. Registi curdi come Erol Mintaş, che ha ricevuto il premio per il miglior film al Sarajevo Film Festival con la sua pellicola di debutto Annemin Şarkısı (La canzone di mia madre, 2014), e Rezan Yeşilbaş che ha vinto la Palma d’Oro del cortometraggio con Be Deng (Silenzioso) nel 2012, non hanno ricevuto nessun fondo. Sebbene il governo non abbia rilasciato nessuna dichiarazione ufficiale sulla questione, corre voce che esista una “lista nera” di “registi per la pace” che in nessun caso riceveranno sostegno governativo per i loro lavori d’ora in poi.
In segno di protesta contro la criminalizzazione dei registi e l’aumento delle pressioni sulla libertà artistica, i registi dalla Turchia hanno lanciato un appello di solidarietà alla Berlinale di quest’anno, dichiarando: “gli accademici e gli impiegati pubblici che hanno presentato un appello alla pace sono stati rimossi e banditi dai propri incarichi pubblici. Giornalisti e politici sono stati arrestati ed incarcerati. Anche i registi da parte loro hanno subito pressioni, essendo messi in una lista nera che ha comportato una forte limitazione dei loro mezzi artistici. Noi, registi di Turchia, che siamo venuti insieme alla 67a edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino, ribadiamo il nostro appello alla pace”. E così nell’aprile 2017 anche i “registi per la pace” sono finiti sotto inchiesta.
Un quadro tetro
Gli avvenimenti nella scena culturale riflettono un quadro a tinte fosche. Gli ultimi due anni hanno visto il ritorno nel Paese al conflitto armato tra Stato e PKK; la speranza di pace che sembrava a portata di mano è pressoché scomparsa. Dallo scorso dicembre la Turchia è diventato il paese con il maggior numero di giornalisti in prigione. Centinaia di politici sono in galera. Il tentativo fallito di colpo di stato nel luglio 2016 è stato utilizzato dal presidente Erdoğan per ampliare ulteriormente i suoi poteri. Da allora, il paese è in costante stato di emergenza, e governato principalmente tramite decreti speciali. Più recentemente, il referendum costituzionale del 16 aprile (i cui risultati sono stati messi in discussione da analisti obiettivi e rifiutati dall’opposizione, in quanto il Consiglio supremo elettorale ha permesso che oltre 1.5 milioni di schede non vidimate fossero considerate valide) è probabile che garantisca al presidente ancora più poteri. Sarebbe irrealistico aspettarsi che la sfera culturale rimanga immune a tutti questi sconvolgimenti politici.
Attualmente sembra che i registi indipendenti, socialisti, curdi, chiunque sia critico nei confronti del governo, di base chiunque non rientri nella definizione dello Stato di “buon cittadino”, avrà enormi difficoltà ad ottenere finanziamenti per i propri film, e sarà ancora più complicato proiettare i propri lavori. Kazım Öz ha utilizzato un metodo innovativo per evidenziare la censura, rovesciando lo strumento della censura contro sé stessa. Eppure molto rapidamente è diventato chiaro che quello non sarebbe potuto essere un metodo di protesta sostenibile: quando Zer è stato proiettato nelle sale la settimana successiva, è stato chiesto di rimuovere completamente le scene “oscurate”. Le autorità hanno voluto accertarsi che non ci fosse segno di censura, o nel caso contrario avrebbero rifiutato di fornire il “documento di registrazione ufficiale”, requisito legale per la proiezione nelle sale.
Orhan Eskiköy, il cui film Taş (Pietra) ha partecipato all’Istanbul Film Festival, in una recente intervista ha affermato: “nella realizzazione di questo film ho tentato di esprimermi in maniera estremamente libera, cercando di fare tutto ciò che volevo. Perchè, mi sono detto, è molto probabile che non avrò più la possibilità di fare film in futuro”. Questo sembra essere il sentimento diffuso tra i registi indipendenti in Turchia. Sicuramente è molto semplice cadere nella disperazione a causa delle crescenti pressioni di tipo sociale, politico, finanziario e legale sugli artisti. Ciononostante, la storia ci ricorda che nuovi metodi di lotta, nuovi modi d’espressione artistica sono giusto lì, in attesa di essere scoperti.
(Berke Göl – trad. C. Pica)
Questo articolo è apparso originariamente in inglese sulla rivista online cinematografica svedese Point of view.