Turchia, cultura e società

Il palazzo di vetro

in Racconto/Scritture

Una favola di Sabahattin Ali

C’erano una volta tre amici a cui piaceva molto più gironzolare a vanvera che lavorare.
Si erano stufati di essere cacciati più di quanto non fossero accolti dai posti in cui andavano.
Non si prendevano la briga di guadagnare col sudore della fronte e mangiare a cuor leggero, perché non erano capaci di far niente. Un giorno, dopo un lungo viaggio, si sedettero in cima a un’alta collina e si misero a guardare storto storto la grande città che si stendeva nella valle di sotto. Mentre pensavano cupi a come sarebbero stati accolti in un luogo che non conoscevano, a uno venne un’idea straordinaria, schizzò subito in piedi e disse:
“Venite con me, costruiamo un palazzo di vetro in questa città; e vivremo in abbondanza fino alla fine dei nostri giorni!”
E gli altri:
“E cosa sarebbe questo palazzo di vetro?” chiesero, allora il primo rispose:
“Sbrigatevi, non c’è tempo da perdere, ve lo spiego per strada!” e i tre si misero a scendere per il versante quasi volando.
Il capo spiegò in due parole ai suoi compagni come avrebbero dovuto comportarsi una volta giunti in città.
La città in cui erano arrivati era la capitale di quel paese. In quella città tutti gli abitanti erano dei gran lavoratori, ognuno faceva quello che sapeva fare, tutti lavoravano per proprio conto e vivevano come signori. Le persone si affaccendavano come api nei campi e nelle botteghe, chi guadagnava aiutava chi non guadagnava, ognuno si scambiava le merci secondo il bisogno, e tutti vivevano in pace e senza lotte, senza padroni e senza servi per tutta la vita. Gli uomini scelti tra loro per assegnare i lavori quotidiani e sedare le liti, non pensavano ad altro che a prestare servizio ai propri concittadini, non gli passava neppure per la testa di approfittare degli altri.
Quando i nostri tre compagni arrivarono in città, era giorno di mercato. Semi, frutta, tessuti, stoffe, ferro e carbone erano accumulati per le strade, compere e vendite si facevano di prima mano.
I tre soci, come da accordi, cominciarono a vagabondare per le strade guardandosi intorno, scuotendo la testa e in modo da farsi sentire dai passanti borbottavano:
“Oh santo cielo… Ma che paese strano è questo!”
Entravano in una strada, passavano in un’altra; s’infilavano in una terza, ma con gli stessi sguardi sorpresi ripetevano le stesse parole. Col tempo destarono una certa curiosità, cos’è che trovavano di strano quegli stranieri in città?, si cominciarono a chiedere tutti. Alla fine uno si fece avanti e chiese ai forestieri:
“Per l’amor del cielo di cosa vi stupite?”
E il capo dei tre volle sapere:
“Ma dov’è il palazzo di vetro della vostra città?”
“Quale palazzo di vetro?”
“Come? Non avete un palazzo di vetro?”
“E cosa sarà mai?”
Il capo si voltò verso i suoi compagni e disse:
“Per carità, non sanno ancora cos’è un palazzo di vetro. Non ci si può fermare in una città simile, rimettiamoci subito in viaggio!”
Gli abitanti della città si incuriosirono ancora di più. Si misero al seguito dei tre. Dopo una decina di passi chiesero di nuovo:
“Amici, che cos’è questo palazzo di vetro di cui tanto parlate? Spiegatecelo un po’, se è qualcosa di molto utile forse possiamo costruirlo anche noi!”
“Utile? Esiste forse una città senza il suo palazzo di vetro? Un intero paese che non dipende dal palazzo di vetro? Su, forza amici, andiamocene!”
Gli abitanti si consultarono un momento lì su due piedi, poi avvicinandosi ai forestieri dissero:
“Perché la nostra città deve essere da meno alle altre? Visto che è così indispensabile mettiamoci tutti insieme a costruire questo palazzo di vetro!”
E il capo dei forestieri:
“Ma no… No… Mica è così semplice costruire un palazzo di vetro… Servono tanti sforzi, materiali, lavoratori. Lasciate che ce ne andiamo in una città che abbia il suo palazzo di vetro!” Ma gli abitanti non si arresero: “Daremo tutto ciò che serve, non vogliamo che il nostro paese resti indietro!” risposero.
Si misero a fare un po’ di conti e cominciarono subito a lavorare. I tre soci progettarono il palazzo di vetro, la popolazione scelse i lavoratori, incaricò il vetturino, cominciò a trasportare sabbia e carbone nella piazza più grande della città. Una parte portava cibo e bevande ai lavoratori coinvolti in quel progetto, rammendava i vestiti. Alla fine furono messi i vetri, i muri del palazzo furono eretti, una volta completato il primo piano i tre compagni si sistemarono all’interno e dissero alla folla:
“Ecco, il palazzo di vetro è pronto. Non è ancora completo, non è della grandezza che merita la vostra città, ma va bene lo stesso. Adesso bisogna conservarlo bene, serve ingrandirlo, scegliete gli uomini, aumentate gli alimenti, mandate gli uomini che avete scelto tra di voi, penseremo noi a ogni cosa…”
Gli abitanti si rallegrarono di avere finalmente un palazzo di vetro, cominciarono a fare economie sul loro cibo e sui loro indumenti per inviarli ai residenti del palazzo di vetro e ai loro inservienti. Dopo poco dal palazzo di vetro giunse l’ordine:
“Bisogna costruire un altro piano. Qui è troppo stretto per noi e per i nostri inservienti.”
Le vetture trasportarono nuova sabbia e portarono pecore e capre, sacchi e semi, cesti e frutta agli abitanti del palazzo di vetro, ai loro inservienti e a quelli che lavoravano nella costruzione. Quando il secondo piano fu terminato i tre compagni si installarono lì con le persone che avevano scelto tra coloro che potevano risultargli utili. E anche quelli, preso gusto a vivere con il pane cotto e l’acqua servita, cominciarono a credere che il palazzo di vetro fosse davvero molte utile e non lesinarono gli sforzi per convincere di ciò i propri concittadini.
Così il palazzo di vetro continuò a crescere all’inverosimile, piano su piano. All’interno si era ben riempito, chi ci entrava non voleva più uscirne, al contrario, quelli che erano fuori facevano di tutto per trovare il modo di entrarci. Ma il resto della popolazione si spezzava la schiena per nutrire tutti i residenti del palazzo di vetro con i loro inservienti. Tra di loro cominciarono a diffondersi dei brontolii. Avevano cominciato a pensarla così:
“Va bene abbiamo capito che il palazzo di vetro è essenziale ma a che servono tutte quelle stanze, tutte quelle bocche da sfamare?” Il capo dei tre compagni spiegò allora il ruolo di ogni stanza:
“Vedete,” disse, “in questa stanza ci sto io, io sono a capo del palazzo di vetro, come si fa andare avanti senza di me? Non ci fossi stato io non ci sarebbe stato nessun palazzo di vetro… In queste stanze ci sono i nostri aiutanti principali… Siamo venuti da terre lontane e vi abbiamo fatto avere il palazzo di vetro, se noi non lo dirigiamo, non resterà né il palazzo e né voi.”
E la popolazione rispose:
“Bene, ma a che servono tutti quegli sfaccendati? Ad esempio che ruolo ha quello che sta in questa stanza?”
“Quello dite? Ma è lui che controlla i conti di tutto ciò che arriva al palazzo di vetro; è il capo di chi raccoglie la merce, se non ci fosse lui non sapreste dove andrebbero a finire tutti i beni che portate. Sareste contenti?”
“E allora in quella stanza chi ci sta?”
“Lui trova quelli che non inviano la merce al palazzo di vetro o non ne inviano abbastanza, e quelli che non capendo l’importanza del palazzo di vetro lo boicottano… Vi pare che si possano lasciare stare queste mele marce vagabonde?”
“Bene, e in quell’altra stanza chi c’è?”
“Lui tiene il conto di chi entra e chi esce dal palazzo di vetro.”
“Capito anche questo, e lì?”
“Lui spazza le stanza del palazzo di vetro…”
Ogni domanda posta degli abitanti trovò una risposta, si convinsero che tutte le stanze e tutti i loro inquilini sfaccendati fossero molto importanti; perché uno era a capo dei lampionai del palazzo di vetro, un altro a capo dei materassai, uno il suo assistente, un altro l’apprendista dell’assistente. Certo, dopo che il palazzo di vetro era stato costruito, servivano gli inservienti per mantenerlo, poi gli inservienti degli inservienti. Ma con l’aumento dei residenti al palazzo di vetro, la popolazione non ce la faceva più a sfamarli tutti. Così arrivarono gli uomini del palazzo di vetro in città a prendere con la forza cibo e indumenti per tutti. I ricalcitranti furono presi e portati nei sotterranei del palazzo di vetro. La popolazione non provava neppure a liberarsi da quella piaga che l’aveva colpita; perché gli uomini del palazzo di vetro ovunque andassero, ovunque girassero, raccontavano a tutti che nessuna forza avrebbe potuto abbatterlo; gli ingenui ci credevano, e quelli che non ci credevano venivano zittiti con mille e una crudeltà e raggiri. E il palazzo di vetro era insaziabile, voleva sempre di più. Siccome i primi erano scansafatiche sin dalla nascita e quelli che si erano accodati dopo avevano dimenticato come si lavora da tempo, a nessuno passava per la testa di essere debitore con quelli che li nutrivano, s’impicciavano solo degli affari altrui, si tenevano d’occhio l’un l’altro quanto nemmeno un governo bada alla popolazione o un paesano ai suoi cani e alle sue pecore. Ma la popolazione era arresa e dava tutto ciò che aveva. Arrivò un giorno che non era rimasto più niente da dare perché un ordine dal palazzo di vetro aveva imposto a tutti gli abitanti di donare l’ultima pecora in loro possesso. Le portarono, le consegnarono, cominciarono a diffondersi insulti e maledizioni. Il capo dei nostri tre compagni accorgendosi che quelli bofonchiavano in quel modo e che non avevano più niente da temere non essendo rimasto loro niente da dare, uscì sul balcone del palazzo di vetro e addolcendo la voce si rivolse a loro:
“Ehi gente, avete dato molto, sopportato molte difficoltà, ma avete ottenuto un palazzo di vetro che tutti ammirano, amici come nemici. In confronto alla sua magnificenza, al suo splendore, cosa saranno mai tre o quattro sacchi di grano, quattro o cinque ovini? Noi lavoriamo per la vostra fama, il vostro onore, non pensiamo ad altro che al vostro bene. Guardate, oggi non abbiamo neppure mangiato tutte le pecore che ci avete portato, ce le siamo tolte di bocca, ve ne restituiremo una parte. Che tutte le teste di pecora siano date alla popolazione!”
Così molti inservienti usciti dal palazzo di vetro cominciarono a ridistribuire alla popolazione le teste delle pecore che erano entrate poco prima vive e vegete; tagliate, scuoiate e pronte per l’arrosto.
Mentre gli abitanti che avevano ricevuto le teste di pecora stavano per allontanarsi, uno tra loro guardando la testa di pecora che aveva in mano cominciò a urlare stupito:
“Sì ma questa testa è senza cervello!”
Il capo parlò dal balcone:
“Sì… Ma che ve ne fate del cervello? Non lo sapete cuocere, lo sprechereste!”
E un altro:
“Sì ma queste teste non hanno nemmeno la lingua!” gridò.
Il capo si sporse dal balcone:
“Caro, a voi la lingua non serve! Non riuscireste a mangiarla!”
Un terzo:
“Oh, ma da queste teste hanno tolto anche gli occhi!”
“Non sapreste cosa farci con quegli occhi, lasciate perdere…”
Così mentre la folla si stava disperdendo con le teste senza cervello, senza lingua e senza occhi, uno tra loro completamente stufo gridò:
“Una testa del genere non mi serve a niente!” e presa la testa dal collo la scaraventò via. Ecco, allora successe una cosa che sorprese tutti; la testa che si era schiantata a tutta velocità contro il palazzo di vetro aveva aperto una gigantesca fessura con un gran fracasso. Quando gli abitanti videro che quel gigantesco palazzo che conoscevano come il più resistente, indistruttibile e imbattibile di tutti, era tanto marcio, cominciarono a lanciare le teste di pecora una dietro l’altra e così il palazzo fu ridotto in una montagna di frantumi in un batter d’occhio. La maggior parte di quelli che erano dentro rimasero schiacciati sotto i frammenti, una decina di persone che stavano vicino alla porta riuscirono a fuggire…
Gli abitanti ripulirono velocemente le macerie del palazzo di vetro, capendo che al mondo si poteva vivere senza, tornarono alla loro vecchia vita, il lavoro venne nuovamente assegnato dagli uomini scelti tra loro, ma il brutto ricordo del palazzo di vetro non si cancellò dalla loro mente per lungo tempo. Quando gli anziani ne parlavano ai bambini non dimenticavano di aggiungere questo consiglio:
“Mi raccomando non mettetevi mai sotto a un palazzo di vetro. Ma se un giorno per qualche motivo viene costruito un palazzo di vetro, non pensate che sia qualcosa di indistruttibile e imbattibile. Per ridurre in polvere il più imponente, basta lanciare qualche testa di pecora.”

Traduzione di G. Ansaldo


Il palazzo di vetro è una favola di Sabahattin Ali pubblicata per la prima volta nel 1947. Oggi ristampata dalla casa editrice Yapı Kredi nella raccolta di racconti omonima Sırça Köşk. Diritti riservati per la traduzione italiana ©Kaleydoskop, 2019.

Sabahattin Ali (1907-1948), insegnante, scrittore, traduttore, giornalista, è stato uno degli intellettuali più influenti, tuttora tra i più conosciuti e amati della Turchia. Inviato in Germania nel 1928 dal Ministero dell’istruzione, dal 1930 ha lavorato come insegnate di tedesco e drammaturgo del conservatorio di Stato in varie città del paese. Ha subito diversi processi e condanne per le sue idee politiche accusate di comunismo e nel 1933 viene cancellato dal registro dei lavoratori statali. Nel 1945 a Istanbul fonda insieme a Aziz Nesin la rivista satirica Markopaşa, presto censurata. Il racconto qui presentato è comparso la prima volta sulla rivista AliBaba, che viene chiusa subito dopo per decisione del governo e l’autore arrestato. Liberato dopo tre mesi, è tenuto costantemente sotto sorveglianza, tenta di lasciare il paese, ma viene ucciso a Kırklareli vicino alla frontiera con la Bulgaria. Le sue opere, cinque raccolte di racconti, tre romanzi, una commedia teatrale e numerose poesie che prendono spunto dalla poesia popolare, sono un punto di riferimento per la letteratura turca, a cui ha apportato a partire dagli anni Trenta un nuovo stile e un realismo quasi documentaristico.

Illustrazioni di ©Ecem Eriş.

 

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