Un racconto di Sevgi Soysal
Le cose oltre le cose — la gente per la strada nemmeno si accorge di me. E dire che da giorni me ne vado in giro, le mie smanie tra le ciocche dei miei capelli. Un pomeriggio umido, vertiginoso, rinvigorente. Mi sono fermata all’incrocio della strada. Le auto passano senza sosta. Sui finestrini il mio volto rosso di rabbia, e quelle passano. Per ben tre volte ho attraversato le strisce pedonali. Nemmeno i vigili si sono accorti di me. “Le strisce… Ci sono le strisce!”, ho gridato loro. Non c’è stato verso che mi calmassi. Tutta la mia rabbia si concentra sotto la pianta dei piedi. Come se stessi camminando sotto al sole di mezzogiorno, sulla spiaggia — a piedi nudi, sulla sabbia arroventata — le piante in fiamme. Contro i maschi, i maschi, soprattutto contro di loro, la mia rabbia contro quelli che non amano che se stessi e ancora e soltanto loro stessi. Uno stuolo di apatici che sfilano a frotte nelle loro giacche a due bottoni, a un bottone, a tre bottoni. Un minimo di speranza la riponevo ancora nei senza giacca e cravatta: ma quelli lì non se ne vanno in giro da soli — vigliacchi! Infatti non ne ho visti, non mi sono imbattuta nemmeno in uno di loro — Che-tu-ci-veda-o-meno, noi-siamo-a-caccia.
Arrivo alla fermata. Donne con figli, donne senza figli con borsa, borse senza donne, ragazze con la gomma in bocca, code di cavallo con la gomma in bocca: aspettano, sempre. Aspettare insieme a loro. Piovesse come si deve, si ripulissero un po’ queste fermate! Sulla banchina si sono seduti due ragazzi del liceo. Anche loro aspettano. Mi avvicino a loro. Con la mano faccio un gesto come a dire: “Fate spazio!” e mi ci siedo in mezzo. Rimangono di stucco, esterrefatti. “Ma…”, dice l’uno, “l’autobus…” e l’altro: “Se andassimo a piedi?”. All’improvviso, con entrambe le mani, tocco la guancia a ciascuno dei due. “Hai la barba più ispida, tu”, dico a quello di destra, “Devi fartela col rasoio!”. Nessuno dei due riesce a staccare gli occhi dai miei sandali neppure per un istante. Io comincio a giocherellare con le dita dei piedi. Di colpo si alzano, si allontanano di corsa. Mi giro a guardare gli altri alla fermata: nel frattempo sono passati sulla banchina di fronte. Avrebbero aspettato con me? Ne sarebbero stati capaci? Se solo fosse arrivato l’autobus… gliel’avrei fatta vedere io! L’autobus arriva, e accosta al LORO marciapiede. Io mi rialzo in piedi e do una spolverata alla gonna.
Era il posto giusto, questa città, per tirar fuori alla luce del giorno tutte le mie smanie? Questa città che altro non è se non una strada a doppio senso di marcia, un andirivieni da una parte o dall’altra. Due o tre vetrine, non so quanti cantieri e altrettante sedi di partito. La colpa è tutta loro, tutta nelle ciocche dei miei capelli. Mai e poi mai avrei appeso ogni mia smania alle loro punte se non si arricciassero così tanto! Vorrei diventare un palo del filobus appena piantato, una macchina asfaltatrice, una rissa. Allora sì, che mi guarderebbero. Non potrebbero fare a meno di guardarmi. Sarebbero obbligati a farlo. È di questo che vivono quelli.
Prendo una delle due strade che fanno di questa città una città e m’incammino verso l’alto. Quando arrivo in cima, la città ha già acceso le sue luci. Ci guardiamo l’un l’altra inebetite.
Eccolo lì il mio guadagno di oggi — la grata di un tombino — il guadagno di questa giornata piatta, vertiginosa è lì, sotto ai miei piedi. Mi lascio cadere sopra la grata. Una a una estraggo tutte le smanie che ho tra le ciocche dei miei capelli e le lancio giù nel tombino. Si mescolano alla fogna della città. “Ah! Tutto qui!”, dico. Era tutto lì.
Traduzione dal turco di Roberto Santoro
Illustrazione di copertina di Domenico Lettera
Diritti riservati per la traduzione italiana ©Kaleydoskop, 2022, su concessione dell’editore
Il racconto “Tutkulu Perçem” di Sevgi Soysal fa parte della raccolta omonima pubblicata dalla casa editrice Iletişim nel 2004. (Prima edizione 1962).
Sevgi Sosyal (1936-1976) nata a Istanbul ma cresciuta a Ankara ha studiato archeologia prima di trasferirsi in Germania dove continuerà a studiare all’Università di Göttingen. Rientrata in Turchia comincia a lavorare per il centro culturale tedesco di Ankara e la prestigiosa Ankara Radyosu. Comincia a pubblicare i suoi racconti su riviste nel 1960. Il libro Tutuklu Perçem da cui è tratto il testo qui presentato è la sua prima raccolta di racconti. Nel 1965 Sevgi Soysal comincia a lavorare per la Radio e Televisione Turca TRT continuando a pubblicare racconti su riviste come Yeni Dergi e Papirüs. Nel 1968 pubblica il suo libro più noto Tante Roza, ispirato alla personalità della zia Rosel, mentre il primo romanzo del 1970 Yürümek (Camminare) tratta delle relazioni tra uomo e donna e del matrimonio. Dopo il colpo di stato del 1971 viene allontanata dalla TRT con l’accusa di oscenità e arrestata per motivi politici per la sua vicinanza ai movimenti studenteschi. In prigione conosce e sposa il professore di diritto costituzionale Mümtaz Soysal arrestato per propaganda comunista. In carcere scrive il romanzo Yenişehir’de bir öğle vaktı (Un pomeriggio a Yenişehir) per il quale viene insignita del premio per il romanzo Orhan Kemal del 1974. Successivamente continua a scrivere racconti, romanzi e libri per bambini e a pubblicare su riviste politiche come Politika e Sosyalist Kültür Derneği. Il suo ultimo romanzo Hoşgeldin Ölüm (Benvenuta Morte) è rimaso incompleto, muore a Istanbul a 40 anni.