Turchia, cultura e società

Saracinesca

in Racconto/Scritture

Un racconto di Murat Özyaşar

Quello che chiami essere umano, una montagna dal capo fumoso. 
Quella che chiamiamo Via della Coercizione; dopo aver fatto forse dieci, forse venti giri da cima a fondo, da fondo a cima nell’unica strada della città in cui si possa girare, ci siamo stufati parecchio. Come ogni persona annoiata non c’era alcun posto in cui desideravamo andare o tornare o restare, Kâmil muove di nuovo le labbra, Kâmil adesso lo sa a quanti giri siamo, è lui a contarli. A volte conta anche i passi. A volte dice trentatre a novecentoventi, a volte dice trentadue a novecentotrentadue. Di solito trentasei a novecentoventuno. Le labbra mormorano ancora, meglio che non mi ci confonda, adesso si confonde. Poi si arrabbia, «Su», mi dice, «torniamo indietro, riconto dall’inizio». Per carità, lo lascio stare, le sue labbra continuino a muoversi, mentre io penso che, sì, d’accordo, siamo al mondo ma chi o cosa può convincerci che siamo al tempo stesso vivi? È evidente che Kâmil ha rinunciato a contare, che questa volta ha mosso le labbra stanche e secchissime con tutt’altro slancio vitale:
«Fra’, ti prego facciamo qualcosa» ha detto, quasi  implorando.
«D’accordo Kâmil, facciamo qualcosa, ma cosa?»
Come tutti quelli che si annoiano ci siamo raccontati barzellette. A dire il vero abbiamo ricordato tutte le barzellette che avevamo numerato molto tempo fa. Ad esempio io dicevo sette e Kâmil capiva subito che si trattava della storiella dei guerriglieri che aspettano i soldati; poi lui diceva diciotto, io scoppiavo a ridere per la storiella dell’anziano processato per favoreggiamento e complicità. Dopodiché, dopo le risate, silenzi, incendiarie ciarle interiori.
Andavamo su e giù. Camminavamo senza alcun pretesto. Un altro giro.
«Scusa se ti interrompo Kâmil, ma quante volte sono che salutiamo le stesse persone?»
«Io mi sono stancato di salutare» dice, «ormai faccio finta di non vedere.»
La neve non dava tregua, cadeva calda calda sui dintorni che si scioglievano, come cadesse per la prima volta, la benedetta. Un altro giro, un altro giro ancora.
Camminiamo questa strada anche a occhi chiusi Kâmil, se un sasso cambiasse posto ci accorgeremmo anche di quello. Noi, siamo noi i viaggiatori di questa strada. Non perderti a pensare a chissà che posto Kâmil, non credere che laggiù siano tutti felici. Non credere che siano tutti contenti laggiù, nessuno se ne sta con le palle al sole, Kâmil. E quella che chiami felicità è merda di topo. E la lontananza non è qualcosa che ha a che fare con la distanza, guarda cosa c’è scritto dietro quell’auto Kâmil: Anche lui è infelice! Una frase costruita con il fuoco della vendetta, che offre la vita al mondo, serena, che placa gli animi, chiunque al mondo: Anche lui è infelice!
Non sprecarti come tutti dietro quella lontananza Kâmil, guarda, è una cosa che ti fa soffrire, e a me dispiace. Guarda, la primavera è passata rinnegando, l’estate è arrivata distruggendo, l’autunno è stato una bomba a grappolo. Ma visto che non siamo ancora morti, avanti, continuiamo a stare qui, a essere al mondo. Bene e di chi siamo l’avanti Kâmil? Ore, giorni, anni e guarda  il mondo come si è intricato ricamo dopo ricamo. Queste mie mani, da quanto tempo mi sono di troppo… Guarda, quando arriva l’inverno, la gente ha un sacco di tasche, un sacco di posti in cui dimenticare le mani, guarda, qualcosa di cui essere contenti, Kâmil.
Basta o avanti? Avanti o basta Kâmil, eh? Il vetro del barbiere Razi è appannato, mi viene da andare e riempirlo di lettere. Perché la gente scrive sui vetri, sapendo che si cancellerà? Sapendo che si cancellerà, perché la gente scrive fitto fitto sui vetri? Una delle due persone uscite dalla Caffetteria Kaçakçay parla all’altra con fervore: «Mi hai fatto venire il latte alle ginocchia bello mio, il latte…» Queste mie mani… I manghi del fruttivendolo, gli avocado, gli ananas abbelliti da lampade di lusso. Adesso Kâmil chiede di cuore: «Perché il mandarino è un frutto così bello da vedere?» Una domanda da due bocche, adesso va a cercare la risposta per le strade. Presa per mano la domanda Kâmil, adesso gira al mio fianco.
Mentre i ristoratori dopo aver finito il loro kebab passano alla fase della pulizia della locanda fuoriesce a pezzi e bocconi una pesante musica arabesk che credi un rituale: “Dio uccide, ti prende dal mondo, tu mi hai ucciso lasciandomi in vita”. C’è una cosa chiamata destino, a volte le persone lo incontrano per caso. Incontrato per caso mi sono fermato sull’ultima strofa della canzone. Fermandomi io anche Kâmil si è fermato. Proprio come quei begli uomini che mentre andavano svelti svelti sembrava parlassero di qualcosa di molto importante e non riuscissero a capirsi e la ragione della loro incomprensione fosse il camminare e solo fermandosi sarebbero potuti arrivare a una decisione aggiungendo ai loro discorsi le mani, talvolta come una parola, talvolta come un’esclamazione, d’un tratto ci siamo fermati in mezzo al marciapiede. Come se avesse aspettato quel momento: «Ero molto invidioso», disse Kâmil, «la prima volta che ho visto Istiklal Caddesi ho detto a mio fratello “dev’essere successo qualcosa qui”, rise molto di me. Eppure me l’aveva detto mio fratello: “Appena esci dall’aeroporto vedrai persone che corrono dappertutto a Istanbul, non ti spaventare!»
«Di cosa eri invidioso, Kâmil?» gli chiesi.
«No, non di questo. Un giorno stavamo camminando su Istiklal io, mio fratello e un suo amico. Lo sai la gente che va di fretta lì non si conta. Sembra sempre che tutti abbiano qualcosa di molto importante, di molto urgente da fare. Mentre alcuni corrono da una parte, gli altri corrono dall’altra, viene da chiedersi dove va questa gente?»
Non chiederlo Kâmil, non preoccupartene mio carissimo, nessuno va da nessuna parte, rimarremo tutti a metà strada.
«Ecco in quella baraonda io camminavo davanti, mio fratello e l’amico dietro. D’un tratto mi sono girato e in quella folla da finimondo mio fratello e l’amico si erano fermati in mezzo di strada a parlare, si stavano raccontando qualcosa.»
«E allora?»
«Non lo so, in quel momento li ho invidiati moltissimo. Addirittura un giorno ti avrei chiesto, ci fermiamo anche noi come loro in mezzo di strada a parlare di qualcosa?» disse.
Mentre eravamo fermi le persone ci passavano accanto, passando ci hanno raggiunto. Ci hanno abbagliato le luce dei negozi, i fari delle auto, ci hanno spaventato i clacson che non suonavano, proprio allora il rumore degli aerei da guerra che si levavano a smorzare il lume di una montagna, gli elicotteri militari che volteggiavano sopra di noi. Un blindato crivellato dalla pietre che lo avevano preso di mira è passato schiacciando l’asfalto. Catrame. Le persone si sono disperse come pallini di un fucile.
«Dev’essere successo qualcosa Kâmil» ho detto.
Kâmil non ha sentito, parole a pezzi e bocconi mi sono passate da un orecchio all’altro, e passando ci hanno raggiunto: Non riesco a spiegare. D’accordo. No, non è così. Il negoziante sa cosa fare. Va bene, faccio attenzione, Io? Noi stiamo bene…
Il giorno è calato. Si è spento.
Ho sentito, anche il silenzio è qualcosa che si ode.
Ho visto, anche il buio è qualcosa che si vede. Ci siamo fermati. Fermandoci il mondo è diventato sordo, le vite ci sono scorse da un lato e dall’altro. Ho capito. Eppure non sono riuscito a spiegarlo a Kâmil. Sono tornato alla canzone, all’ultima strofa: “Dio uccide, ti prende dal mondo, tu mi hai ucciso lasciandomi in vita.”
«Kâmil» ho detto, «c’è un errore. Nella canzone bisognava che dicesse “al mondo” non “in vita”.»
«Guarda Kâmil, guarda, ci inganniamo. Dobbiamo ingannarci. Più di tutto è da un erborista che appaiono chiari i principali problemi della gente:
Perdere sette chili in un mese da oggi è possibile.
Basta con acne, macchie, punti neri e brufoli.
La soluzione erboristica alla caduta dei capelli.
Spray per aumentare la forza sessuale.
Composto dimagrante, saziante.
Le emorroidi non sono più un problema.»
No, il problema di Kâmil non è nessuno di questi. Non è questo, né quello, né  quell’altro… Ha un animo turbato che nemmeno il compratore d’anime vorrebbe. A un certo punto si era sposato questo Kâmil, pensando che le preoccupazioni fanno bene, fanno vivere le persone.
«Davvero» ho detto, «come va il matrimonio Kâmil?»
«Senti, va bene, è piacevole ma non finisce mai» ha risposto. Capito, neppure lui vuole tornare a casa. A volte le persone non riescono a uscire da fuori. Bene, e come finirà questa sera Kâmil?
Sono passate delle ragazze molto belle da dietro e niente affatto da davanti.
«Che dire, Dio sia lodato» disse Kâmil, «sa come far stupire le persone.»
«Guarda i giapponesi hanno dato un nome a quelle così, le chiamano bakku-shan, Kâmil».
Ci sono passate accanto ragazze da “vieni guardami e muori”; ognuna dall’acconciatura più lunga del mio braccio e dotate di un decolté inenarrabile. Ti si torcerà il collo Kâmil, ma hai ragione, da dietro sembravano molto belle. Vieni, diamogli un nome anche noi, che so, chiamiamole Dilba. Quando dirò Dilba tu capirai cosa intendo.
No, davvero, perché il mandarino è un frutto così bello da vedere?
Ma e però, i marciapiedi risuonavano di duri passi. Nelle strade laterali gruppi riuniti, nelle bocche slogan vecchi mille anni e ancora attuali, le marce nelle loro lingue, il vapore nell’aria, forti braccia a tempo, nelle mani pugni, pugni di pietre miscredenti contro la neve. Noi non possiamo neppure lanciare slogan Kâmil, non possiamo neppure cantare marce nella nostra lingua; ci vergogniamo, non sappiamo dove nascondere le nostre voci Kâmil, eh? La polizia raggruppata agli angoli delle strade, chiedono di nuovo i documenti, apre e mostra la sua ferita il poeta Fecri. Il suo dolore è più lungo della sua barba. Tu a chi li hai lasciati quei baffi Kâmil, a cosa,  per chi li hai tagliati i capelli?
A breve si ammorbidisce insieme alla neve, una donna sbriciola il pane per gli uccelli sui cornicioni.
Guardiamo.
Alcune persone sono fatte per guardare.
Il ramo di un albero appeso alla neve che invece di cadere per tutta una stagione, cade ostinata sull’oggi. Un uomo gracile cerca di scuotere il ramo per alleggerirne il peso.
Kâmil come supplicasse, di nuovo:  «Fra’ per carità facciamo qualcosa.»
Anche il tedio ha una sua energia che ti esplode dentro così dal niente. Se andassimo a Kaçakçay a giocare a scacchi? Impossibile, non potrei convincere Kâmil, stasera non possiamo saldarci così alla vita, tanto siamo diventati noi il gioco, direbbe e taglierebbe corto. Mi è saltato all’occhio il venditore di zuppa. D’accordo, mi sono detto, facciamo una gentilezza a Kâmil. Mi è uscito di bocca come fosse l’ultima briscola tenuta in mano, so che Kâmil non resiste, perché per lui è qualcosa di cui non riesce a saziarsi: i due bicchieri di acqua fredda bevuti dopo una scodella di zuppa di lenticchie fumante. Persino nei giorni più nevosi so come guarda con voracità quella caraffa appannata appena uscita dal frigorifero. Perché Kâmil mangia la zuppa per sentire quell’ineguagliabile sapore dell’acqua. Poi tè e sigaretta, tè e sigaretta oppure sigaretta e tè. Sa bene Kâmil come legare un tè a due sigarette, e come rovinarlo.
Al tavolo a fianco c’è una cosa chiamata fame operaia, che rinnova la mia fede nella fame e nel cibo.
Poi i camerieri hanno raccolto agitati i cucchiai, le scodelle. I piatti. Sono passati ai canali delle notizie uno dopo l’altro, hanno spento la televisione non con il telecomando ma con le bestemmie. Chiusi i fornelli si sono tolti le divise. Il secondo bicchiere di Kâmil è rimasto a metà. Con la colonia al tabacco ci siamo separati  in fretta e furia dalla locanda.
«Complimenti» ho detto. Si sono stupiti.
Kâmil: «Non fare queste cose» ha detto.
«Lo sai Kâmil, io vado matto per l’odore di alcool, tabacco e colonia mescolato ai baffi.
«Ti ricorda tuo padre?»
«Mio padre, i miei zii, tutte le sere d’infanzia, l’adolescenza…»
«Lascia stare, ora vada una scodella di zuppa, vada pure un bicchiere e mezzo d’acqua. E ora con una Samsun 216 come va? Eh? Magari ci facciamo pure due singoli, mescoliamo il rakı con il rakı, l’acqua con l’acqua, va bene?, poi con quegli odori tra i baffi ti coccolo e ti carezzo i capelli, eh? Come va?
«Uffa, d’accordo, sono a posto così Kâmil, a posto così.»
Si era creata una bella confusione, i bidoni della spazzatura rovesciati dappertutto, ovunque odore di gas lacrimogeni. Per le strade una o due persone, siamo passati tossendo senza salutare. La taverna Ben û Sen aveva chiuso presto, il rivenditore di alcolici pure.
Abbiamo fatto i leoni in  gabbia dicendo: Che si fa? Il tempo della sera era scaduto, il giorno misurava la notte. Un altro giro. Un altro giro ancora. Ci siamo ritrovati di nuovo al punto di partenza.  Le labbra di Kâmil di nuovo a mormorare.
Stavo per dire «A quanto siamo Kâmil?», quando un bambino alto quanto le nostre gambe ci è apparso davanti, in mano una scatola di accendini.
«Prendete i fazzoletti» ha detto.
L’abbiamo guardato storto storto.
«Sì ma tu non vendi mica fazzoletti, vendi accendini» ha detto Kâmil.
Fu come si risvegliasse, ha abbassato lungo lungo le ciglia e risollevate. Si è stropicciato gli occhi con la mano destra a pugno.
«Mi ero incantato, quelli erano ieri» ha detto. Poi, «Allora prendi un accendino» ha detto.
«E va bene, daccene due».
Si è messo i soldi in tasca, si è soffiato sui palmi. Volevo piegarmi a fargli fiato, ma mi mancava l’odore di alcool. In che astrazione si era invischiato il mondo, una montagna nevosa dal capo fumoso.
Nel chiedergli «Cosa venderai domani?» ho allungato le mani sui suoi capelli.
«Domani, domani si abbassano le saracinesche per protesta» ha detto.
«Su dai, chiudiamo bottega anche noi» ha detto Kâmil, «Dai, dai.»
Le braccia per aria come arresi, è scesa la saracinesca della nostra lingua.

 

trad. Giulia Ansaldo

Saracinesca è un racconto di Murat Özyaşar  pubblicato con il titolo Kepenk nella raccolta Sarı Kahka (Doğan Kitap, 2015). © Diritti riservati per la traduzione italiana, Kaleydoskop, 2017 (su concessione dell’autore tramite Anatolia Lit Agency).

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Murat Özyaşar, nato  a Diyarbakır nel 1970 è uno scrittore di origine curda. Ha pubblicato tre raccolte di racconti con la casa editrice Doğan Kitap a partire dal 2011. La sua seconda raccolta Ayna Çarpması è stata ricompensata nel 2008 con il premio Haldun Taner e nel 2009 con il premio Yunus Nadi. Animatore culturale su diverse riviste di letteratura come Varlık, Kitap-lık, Adam Öykü… Murat è fondatore di una rivista in lingua curda, Hışt Hışt, che redige assieme ai suoi studenti di liceo. Nel 2016 in seguito al tentato golpe è stato tra gli insegnanti rimossi dall’incarico, quindi tenuto in custodia una settimana con l’accusa di avere relazioni con organizzazioni terroristiche.

 

L’illutrazione di copertina è di ©Isabella Staino
(olio e acrilico su carta)

La fotografia è di Yann Renoult.

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