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Temelkuran: processo Pınar Selek, una spregevole ingiustizia

in Brevi/Società

Il 31 marzo si svolge a Istanbul l’ennesimo processo contro Pınar Selek che segue la decisione di emettere un mandato di cattura internazionale nei suoi confronti presa lo scorso gennaio da parte della Corte suprema turca. Una delegazione internazionale è presente al Tribunale mentre solidarietà è espressa dal mondo accademico, da Pen International, dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani. Pınar Selek, oggi cittadina francese, dopo la sentenza del tribunale, rischia l’estradizione.

Di seguito, la giornalista e scrittrice Ece Temelkuran ripercorre il processo Pınar Selek e le motivazioni di una persecuzione giudiziaria iniziata nel 1998.


Appena abbiamo ricevuto le notizie riguardanti Pınar Selek, sociologa, scrittrice e militante dei diritti umani, abbiamo sentito le stesse contrazioni di quando abbiamo saputo della carcerazione di Osman Kavala o di Selahattin Demirtaş, e le innumerevoli ingiustizie che non abbiamo potuto impedire nel corso dell’ultimo decennio.

Pınar, una cara amica per molti, è vittima di una spregevole ingiustizia o, in altri termini, di una tortura giudiziaria, da venticinque anni. Dallo scorso gennaio, poi, le autorità turche hanno deciso di emettere nei suoi confronti un mandato di cattura e arresto internazionale.

Se tutto va come auspica il governo turco, Pınar, una persona del tutto eccezionale, una insigne accademica e una brillante narratrice, diventerà una criminale ricercata in tutto il mondo. Tutto questo perché è nata in un paese in cui i popoli sono messi gli uni contro gli altri (armeni, curdi, turchi, ecc.). Lei è stata una delle poche persone che hanno osato attraversare questi confini per raccogliere racconti di pace, un po’ come Osman (Kavala), Selahattin (Demirtaş) o il nostro caro amico Hrant Dink, ucciso nel 2007. E, proprio come la loro, la sua storia ufficiale è incredibilmente ridicola.

Lacune legali

Le autorità turche cercano Pınar per un attentato che non c’è stato! Nel 1998 si verificò un’esplosione nel mercato delle spezie di Istanbul. Nonostante le numerose perizie indicassero che non si trattava di un attentato ma di un incidente causato da una fuga di gas, le ombre che operano all’interno del sistema giudiziario turco decisero che doveva trattarsi di una bomba e che Pınar doveva essere l’autrice dell’attentato.

In seguito all'”attentato” è stata presa in custodia. Per una settimana è stata sottoposta a pesanti torture (cinghiate, elettroshock…), ma nessuno dei torturatori l’ha interrogata sull’esplosione. Dopo un’udienza in tribunale senza assistenza legale e con molte prove false, è rimasta in prigione per due anni e mezzo. Alla fine le insufficienze del processo giudiziario sono diventate così evidenti che è stata rilasciata. Ma alcune ombre nella polizia turca non erano contente di questo rilascio. Così il caso è stato riaperto con nuove prove fabbricate su misura e il cosiddetto processo legale è rimasto aperto fino a oggi.

Negli ultimi 25 anni è stata assolta più volte, ma il suo caso giudiziario è sempre tornato in tribunale grazie agli insistenti appelli dei pubblici ministeri. A gennaio, la più alta corte del Paese ha preso la decisione finale: Pınar è stata condannata all’ergastolo.

Sono esausta

“Sono esausta”, mi ha detto Pınar quando mi ha telefonato la settimana scorsa. Ricordando Hannah Arendt, che una volta disse: “Non sono stanca, ma esausta”, abbiamo riso amaramente della nostra miseria. “Tutto questo perché, come turca bianca, hai osato essere curiosa della questione curda”, le ho detto. “E non dimenticheranno mai questo peccato capitale”.

Ecco perché, quando i suoi aguzzini le hanno slogato la spalla durante la tortura, ciò che volevano sapere era l’identità dei curdi con cui dialogava per la sua ricerca di sociologia. Volevano nomi, indirizzi, tutto. Gli aguzzini pensavano che fosse un membro del PKK, perché nessuna donna turca sana di mente si sarebbe mischiata ai “terroristi” e avrebbe chiesto ai curdi la loro versione dei fatti. Non potevano sapere né capire che Pınar apparteneva a quella rara e bellissima specie che si tuffa nelle storie che vuole raccontare.

La prima volta che ho visto Pınar è stato all’inizio degli anni ’90, quando lavorava con i bambini di strada. Aveva creato un laboratorio a Taksim per permettere loro di fare arte. Pınar suonava il flauto. Quando camminava, con la schiena ben dritta, tutti coloro che erano spinti ai margini della società – sniffatori di colla, travestiti, lavoratori del sesso, senzatetto – la seguivano. Non li “salvava” tenendosi a distanza di sicurezza come avrebbe fatto una turca bianca, ma viveva insieme a loro per dargli tutta la sua solidarietà. Come Simone Weil, con una spina dorsale più forte. Da sociologa, quando ha capito che il problema centrale della Turchia era la questione curda, si è gettata nel cuore del problema senza timide riserve. Ecco perché oggi, dopo venticinque anni, viene ancora punita e torturata con strumenti giudiziari illegittimi.

Mezzo paese con il fiato sospeso

L’opposizione turca, nei suoi giorni migliori, avrebbe potuto reagire a questa scandalosa decisione del tribunale con voce più forte e far capire in modo chiaro che era dalla parte di Pınar Selek, come ha fatto più volte nell’ultimo quarto di secolo. Ma la Turchia di oggi è diventata una fiera dell’ingiustizia e, soprattutto, l’avvicinarsi delle elezioni attira tutta l’attenzione.

Anche se sappiamo tutti che le possibilità di porre fine al governo di Erdoğan sono piuttosto scarse, almeno metà del Paese trattiene il fiato fino alla data delle elezioni. Ciò spiega l’attuale silenzio.

Tuttavia, anche se Erdoğan sarà detronizzato alle elezioni, anche in questo giorno benedetto, quelli di noi che hanno osato chiedere la pace e la riconciliazione con i curdi saranno sempre le streghe della Repubblica. Dopo tutto, il caso di Pınar è più vecchio di quattro anni rispetto al governo di Erdoğan, che a molti sembra già un’eternità. Per questo sa che il “crimine” che sta pagando è quello di continuare a scrivere, di continuare a parlare per costruire una Turchia in cui i narratori non vengano torturati per aver detto la verità. (Ece Temelkuran)

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