Quando durante il Global Alcohol Policy Symposium di Istanbul organizzato dall’OMS nell’aprile del 2013 l’allora primo ministro Recep Tayyip Erdoğan affermò: «La nostra bevanda nazionale è l’ayran, non il rakı», contrapponendo la bevanda a base di yogurt, acqua e sale, al distillato di uve aromatizzato all’anice, giornali e social media ne parlarono per settimane, e forse avrebbero continuato a parlarne ancora con la stessa ironia dissacrante, se di lì a un mese non avessero avuto ben altro di cui occuparsi con l’esplosione delle proteste di Gezi.
Conosciuto come «latte di leone» e «liquore nazionale», il rakı turco, parente dell’ouzo greco e del pastis francese alla lontana, da non confondersi con la rakija dei Balcani, secondo il giornalista esperto di gastronomia Mehmet Yaşın è «l’elemento più importante della cultura turca». Bere rakı comporta infatti numerose regole e rituali tacitamente condivisi e strettamente rispettati. Il rakı non si beve da soli al bancone di un bar ad esempio – tanto che baristi professionisti o birrerie rinomate non lo includono nel loro menù – e se lo si fa è perché si vuole attirare attenzione, perché si è particolarmente disperati, o palesemente stranieri. Il rakı si beve in compagnia, lentamente, insieme al cibo. Tuttavia con il rakı non si mangiano piatti completi ma una serie di portate, meze, per lo più ma non esclusivamente fredde, a base di verdure sottolio, formaggio fresco, pesce marinato, salse, frutta… E questo perché il cibo accompagna la bevanda e non viceversa, imponendo una consumazione di piatti che possono restare a lungo sulla tavola senza alterarsi.
Nella cultura delle meze ci sono molte tracce della cucina greca e armena dal momento che molte delle taverne in cui si beveva rakı, le meyhane, letteralmente «casa del vino» erano gestite dai non musulmani dell’impero, i meyhaneci d’eccellenza. La rakı masası, tavola da rakı, comporta regole non soltanto igieniche e culinarie ma anche di comportamento. Quella ideale non è troppo affollata, anche se è ammesso aggiungere commensali nel corso della serata, si raccontano aneddoti e memorie di vita, si parla preferibilmente di politica, di letteratura, e di sesso quando i commensali non sono promiscui. Nelle meyhane tradizionali infatti fino ai primi anni della Repubblica l’accesso era negato alle donne. Anche se non c’era una legge che lo vietava esplicitamente si parlava di kadın tabusu, tabù della donna. Il cambiamento è cominciato nelle meyhane greche alla fine degli anni Quaranta e a partire dagli anni Cinquanta anche donne dell’élite intellettuale turca hanno cominciato a frequentarle assiduamente. Tuttavia sono stati necessari altri due decenni, fino agli Settanta, perché le donne fossero socialmente accettate nelle meyhane che si sono trasformate negli attuali «ristoranti con alcolici».
Anche la musica ha un ruolo particolare nelle rakı masası. Nella enciclopedia dedicata alla musica di accompagnamento delle meyhane del 2019, l’autore Murat Meriç spiega bene come la musica cambi da luogo a luogo, a seconda delle stagioni politiche e delle ere. Rock, pop, arabesk, musica popolare e alaturka, ovvero la musica artistica tradizionale, il più antico accompagnamento del rakı. L’enciclopedia del rakı pubblicata nel 2011 con il contributo di decine di scrittori e giornalisti, e poi riedita in versione tascabile nel 2014, dedica un’intera voce al genere arabesk così definito: «Genere musicale che mescola elementi di musica tradizionale turca, pop arabo, indiano e occidentale e musica alaturka. Percepito come fenomeno sociale sin da quando è emerso negli anni Sessanta, è diventato l’accompagnamento naturale di vino e rakı.»
Un tempo liquore nazionalpopolare, per il facile accesso e il prezzo contenuto, in opposizione agli alcolici d’importazione, il prezzo di una bottiglia di rakı dal 2009 al 2020 è aumentato a dismisura diventando inaccessibili per molte persone, soprattutto per i giovani per i quali la cultura della meyhane è in declino rispetto al passato. L’aumento della tassa sul lusso, applicato due volte l’anno, è stato del seicento per cento in dieci anni (2009-19) e per «la grande», bottiglia da 70 cl, quasi il 75 per cento del prezzo di vendita è composto da tasse di varia natura. In maniera inversamente proporzionale sono cambiati i dati sul consumo, 45 milioni di litri nel 2012 si sono ridotti a 38 nel 2019. Dato, questo, che risente anche di un altro fattore: per chi non sa rinunciare al rakı è diventata sempre più diffusa la preparazione fatta in casa che, tuttavia, solo in pochi casi è realizzata tramite un sistema di distillazione artigianale e il più delle volte si riduce invece a insaporire alcol etilico con anice e zucchero. Questa pratica si è diffusa al punto che alla fine del 2017, per contrastarla, è stato varato l’obbligo di aggiungere all’etanolo venduto al dettaglio, il denatonio benzoato, sostanza che modifica sgradevolmente il sapore dell’alcool.
Se il rituale di bere il rakı deve essere inserito in contesti codificati, nella modalità di consumarlo è invece legittima la personalizzazione, che diventa un simbolo di distinzione e individualità. Singolo, doppio, secco, con acqua a parte, con acqua nel bicchiere, con uno o due cubetti di ghiaccio, con ghiaccio senza acqua, con acqua e ghiaccio, in bicchiere da rakı, stretto e lungo, nel bicchierino da tè, basso, a forma di tulipano… Si consiglia spesso di alternarlo, dopo il secondo o terzo bicchiere, da un giro di tè caldo, prima di continuare.
Altro elemento immancabile della cultura culinaria e sociale il tè, çay, è a sua volta legato a numerose pratiche e regole di preparazione oltre che di produzione. In bustina o in infusione, diluito o concentrato, turco o di contrabbando? Con l’importazione stimata di oltre quarantamila tonnellate ogni anno, il kaçak çay ovvero «tè di contrabbando» rappresenta una buona fetta del tè consumato complessivamente in Turchia: 250mila tonnellate annue. Monopolio di Stato fino al 1984, il tè in Turchia continua a essere prodotto principalmente dalla firma Çaykur, azienda statale che garantisce quasi la metà della produzione del paese con 46 fabbriche di lavorazione e una di imballaggio nella regione del Mar Nero tra Rize, Trabzon (Trebisonda), Giresun e Artvin. Con l’apertura ai privati e all’importazione dai mercati esteri del 1984, il kaçak çay ovvero il tè di Ceylon, proveniente dallo Sri Lanka e trasportato a dorso di mulo lungo la rotta che attraverso l’Iran, e poi l’Iraq e la Siria giungeva in Turchia, è diventato legale. Nonostante da allora esistano vie commerciali autorizzate per il pregiato tè di Ceylon, dalle foglie più grandi, a infusione più rapida, dal sapore acuto e acidulo e dal colore scuro, il nome del tè preferito e più consumato nelle regioni a est e sudest del paese è rimasto «kaçak».
Così come sono rimaste aperte le vie del contrabbando. Il marchio unico per riconoscere il tè di Ceylon prodotto in Sri Lanka, il profilo di leone che tiene in pugno la spada, è riprodotto e utilizzato infatti anche su tè prodotti in Turchia al di fuori degli standard regolamentati o su tè importati illegalmente da altri paesi, in particolare dall’Iran, oggi luogo di produzione e rotta principale di ingresso del tè di contrabbando. La pratica è talmente diffusa che nell’agosto 2019 il ministero dell’Agricoltura dello Sri Lanka stesso ha diffuso un messaggio sull’uso improprio fatto in Turchia del logo nazionale.
Per ovvie ragioni economiche, il consumo di kaçak çay è combattuto a livello istituzionale con vari mezzi, dai sequestri doganali – una media di duemila tonnellate annue – alla diffusione periodica di annunci sui rischi per la salute che comporterebbe a causa dell’uso incontrollato di pesticidi, fino alla comparsa di notizie allarmistiche secondo cui il tè di contrabbando per essere così scuro sarebbe tinto con sangue di maiale. La Çaykur nel 2014 ha tentato (fallendo) di produrre un tè con le caratteristiche di gusto del tè di contrabbando: se per il palato nazionalista il kaçak çay non si sposerebbe con la cucina turca, come commentano alcuni a proposito delle notizie sui quotidiani sull’argomento, al Sudest anche boicottare la fabbrica statale fa parte della lotta per l’identità. D’altra parte se il consumo massiccio e quasi esclusivo del kaçak çay avviene al Sudest, ovvero in Kurdistan, non è solo per una questione di gusto o di geografia, ma anche politica.
Articolo a cura di Kaleydoskop uscito per la rivista libro The Passenger – volume dedicato alla Turchia, a giugno 2020. Illustrazione di copertina di Edoardo Massa.