Turchia, cultura e società

La moglie del venditore di riso

in Racconto/Scritture

Un racconto di Gaye Boralıoğlu

Io per tutta la vita ho disossato polli signore. Io dico migliaia, lei centinaia di migliaia; tanti così. In passato bisognava anche spennarli, certo, anche quello toccava a me. Prima togli le penne, poi le bruci, poi li fai bollire per ore… Poi quei polli sono spariti, non so dove sono andati. Prima dietro casa nostra c’era pure l’aia del vicino. Quand’ero piccola voglio dire. Sono spariti tutti. Ormai li allevano in fabbrica i polli. A dire il vero è un bene, almeno non c’è più da pensare a spennarli e bruciarli. E poi appena messi sul fuoco cuociono in dieci minuti.
Glielo dirò signore, arriverò al punto. Se le mie parole possano illuminarla o meno poi, quello è un mistero, ma io le racconterò tutto quello che so.
Mio marito si è messo d’accordo con una fabbrica, i polli arrivano puliti da lì. E io li lesso ben bene in pentoloni giganti. In ogni casseruola c’entrano dieci-dodici polli, sono grandi tanto. Li lesso, tolgo la pelle, poi comincio a disossarli. Sembra facile, fossero uno o due sarebbe facile, certo. Ma non è così, a disossarne centinaia, migliaia per giorni, ti vengono le mani che sembra abbia lavato una tonnellata di panni. Si fanno tutte a brandelli. Mi guardi le mani…
È vero, le mie mani non le interessano signore, ha ragione, mi scusi. Su, lasciamo perdere le mie mani, e quell’odore? Lei ha mai vissuto in una casa dove si lessano polli in continuazione?
Ma certo, certo che le domande le fa lei. Io non volevo interrogarla. Che diritto ho! Volevo solo parlarle dell’odore; dell’odore che si infiltra nelle poltrone, nei tappeti, nelle tende, nei piatti, nelle scodelle, nel lavandino, nelle scarpe, nelle ciabatte, insomma in tutto ciò che le viene in mente possa trovarsi dentro una casa! Si appiccica dappertutto in ogni angolo, il maledetto. Entra pure nell’anima, nella testa, poi ti si para davanti nei luoghi più impensabili. Ad esempio l’uomo che ti è seduto accanto sull’autobus comincia a puzzare di pollo, oppure il lampione della strada, il pane preso dal forno, a volte un bambolotto…
Si dice che ogni essere vivente ha il suo odore. I fiori odorano in un modo, gli animali in un altro. E poi le donne… Pare che ognuna porti la fragranza di un fiore diverso. Io vorrei proprio sentire gli odori in quel modo. Poter sentire l’odore di un uomo ad esempio… fosse anche di mio marito! Quando dico che ti entra nello spirito e nella testa, intendo questo signore, non avevo altre intenzioni. Cioè vedere il pollo in ogni cosa che guardi, in ogni cosa che annusi. Avere a che fare con quell’indiavolato a due zampe anche nei sogni. Oh, per carità… È quello che ci dà il pane certo, non mi faccia parlare così. La prego signore, tolga l’ultima cosa che ho detto, dell’indiavolato cioè, a due zampe lo può lasciare.
Io a un certo punto mi ero anche detta di farla finita di disossarli e sminuzzarli col coltello. Allora mio marito ha afferrato quel coltello e è venuto verso di me. Così non funziona, ha detto. Ogni cosa va fatta a modo suo, o vuoi farmi fallire? ha detto. Certamente tagliuzzarli sarebbe stato più facile ma visto che non me l’ha permesso io ho continuato a disossare. Fibra per fibra, sottile sottile… Sembravano centrini i miei polli. Perciò non mi piacciono nemmeno i centrini. E il pollo non lo mangio mai.
Oltre al pollo? Ci sono i ceci signore. Ogni giorno in un’altra casseruola cuociono chili di ceci. E i ceci certo, non sono complicati come il pollo. La cosa importante lì, è saper bene quando spegnere il fuoco. Se lo spegni troppo presto rimangono duri, se lo spegni troppo tardi viene via la buccia. I clienti non devono trovarsi in bocca la buccia dei ceci; è spessa, e senza sapore. Se mio marito la vede impazzisce. A casa nostra è successo spesso che si chiudessero porte e finestre per una buccia. O che mi facesse un occhio nero, certo, quello è un altro discorso.
Il riso… Ci arrivo signore, arrivo anche lì. La particolarità del lavoro è quella d’altronde. Il pollo è un lavoraccio. Ma il riso è più importante. Far tenere la cottura non è affatto facile come sembra. Non è a caso che si usa dire “Si capisce se una donna è donna da come cucina il riso”. Quanto riso, quanta acqua ci metti? Il riso lo lavi prima? Mentre riposa nell’acqua ci metti il sale? Lo sciacqui bene per lavarlo dall’amido? Come aggiungi l’olio e il sale? Quando abbassi la fiamma? Tutte queste cose sono importanti. Un riso cucinato per bene deve avere i chicchi ben separati. Tutti fanno il riso ma solo pochi sanno farlo come si deve. È al tempo stesso il cibo più cucinato e il più difficile da preparare. Servono accorgimenti sottili. È un mistero. Ci sono così tante donne che non riescono a far tenere la testura del riso cotto in pentolini minuscoli, mentre io ogni giorno che Dio manda in terra cuocio riso in calderoni grandi così e non si è mai visto che non mi sia venuto bene. Non c’è un giorno che sia uno che il riso mi si è attaccato sul fondo. Poi qualcuno ci aggiunge il brodo perché sia più saporito. Io non ce l’ho mai messo. Anche a volerlo non potrei. Non possiamo permetterci spese extra. Che già sopravviviamo a stento.
Ci arrivano sacchi di riso, certo, anche quelli li porta mio marito. Non so dove li prende.
No, non c’è una marca sopra. Sono sacchi tutti bianchi. Li stocchiamo sotto il divano o sotto le panche. Qualunque cosa tu sollevi in casa viene fuori riso. Rincara di continuo, perciò ne prendiamo quanto riusciamo a prendere in anticipo e lo stocchiamo, signore. A dire il vero troppo riso è pericoloso. Soprattutto quando è caldo fa i vermi. Se fa i vermi non lo usiamo, certo. Quando fai cuocere il riso si distinguono neri neri. Una volta l’ho fatto. Non avevo cattive intenzioni, solo che non me ne ero resa conto, ho cotto il riso coi vermi. Mustafa, cioè mio marito, quando se n’è accorto mi ha rovesciato tutta la pentola in testa. Grazie a Dio non era delle più grandi, così, di quelle medie. L’ho pregato, perdonami, i bimbi urlavano gironzolandomi intorno, mi sono confusa, mi è calata una tenda sugli occhi, non l’ho visto… ma non sono riuscita a farmi sentire. Mi ha rovesciato la pentola in testa e il riso mi è scivolato chicco a chicco sulle guance insieme ai vermi. Ma non è cattivo Mustafa, ha solo un po’ la mano pesante.
Ho due figli e tre figlie signore. Il più grande ha trentadue, il più piccolo tredici anni. Non se n’è ancora andato nessuno, viviamo tutti insieme in una casa. Il grande ogni tanto fa qualche lavoretto ma il vagabondo non ha la costanza di imparare un mestiere, non esce neppure con suo padre, cos’è che dice? Ha un onore da difendere lui, non può fare un lavoro così, un ingrato davvero!
Sì ha fatto il militare signore, un ragazzo utile alla patria e al paese, solo a noi non è utile.
Certo che le racconto com’è cominciato questo lavoro. Se non lo racconto a lei a chi devo raccontarlo signor giudice. Addirittura le dirò questo, è la prima volta nella vita che qualcuno mi fa una domanda simile, come ho cominciato questo lavoro, mi chiede. Si figuri se la lascio senza risposta, gliela do e con gran piacere.
Ero piccola signore, avrò avuto sì e no quindici anni. Con Mustafa eravamo cugini in realtà. Noi eravamo undici fratelli. Per avere una bocca in meno da sfamare in casa a noi ragazze ci facevano sposare a quindici anni. E io, mi permetta, avevo tutte le cose al posto giusto. Ora non si lasci tradire dal mio aspetto, ero davvero bella da giovane. E Mustafa aveva messo un occhio su di me. Lui pure non aveva ancora diciotto anni. Quando mi ha chiesto in matrimonio hanno acconsentito di buon grado. Ci hanno messo scalzi e nudi in una baracca col tetto che pioveva e i muri che crollavano. Io all’inizio ero contenta, certo. Non avrei dovuto preoccuparmi dei suoceri, speravo di vivere testa a testa con mio marito nel nostro nido. Ma in realtà erano loro a essersi liberati di noi, siamo rimasti tutti e due in quella casa senza un soldo. Mustafa non aveva un lavoro né sapeva un mestiere. Quanto a me ero una bambina ignorante che aveva abbandonato le elementari. Allora un giorno cucinai del riso, e anche quello per forza. La casa era completamente vuota, non c’era altro da mangiare. Mi avevano dato dieci chili di riso per dote. Dovevano averlo trovato a buon prezzo da qualche parte, che ne so. Ecco lessai un po’ di quel riso. A Mustafa gli piacque così tanto che schizzò dal posto dicendo “Facciamo questa cosa!” Non mi lasciò il tempo di chiedere quale cosa, cos’è successo, che già era uscito. Tornò la sera con una carriola. La lavammo per bene, la pulimmo da cima a fondo. Per prima cosa feci cuocere due volte il riso nella casseruola più grande che avevamo. Quando stava per fare buio Mustafa uscì, e tornò verso mattino stanco morto. Prima di andare a dormire disse, cuocine tre di casseruole. Mentre lui dormiva quel giorno cucinai tre casseruole di riso. Andò avanti così per anni. Mustafa verso sera si alzava dal letto, quando lui usciva di casa io mi addormentavo. Quando mettemmo da parte un po’ di soldi aggiungemmo i ceci al riso. Allora, appena le vendite aumentarono e stavamo per essere un po’ più tranquilli, da un giorno all’altro è nato Tufan. Appena il tempo di rimetterci in piedi che subito dopo è venuta Necla. Tra Necla e Meral ci corrono cinque anni. In quel periodo ci siamo un po’sistemati, abbiamo cominciato a aggiungere il pollo sul riso. Lì ho cominciato a disossare. Disossavo polli per tutto il giorno. E poi è sempre andata avanti così. Mehveş ormai ha tredici anni e non ci siamo ancora raddrizzati.
No signor giudice, non conosco nessuno che si chiama Seyfettin Durmaz. Ho visto la foto di quell’uomo sul giornale per la prima volta in vita mia. L’hanno trovato morto in casa. Non aveva neanche trentacinque anni. Un bell’uomo, aveva anche figli e famiglia, che peccato. Mi dispiace, davvero, non so cosa dire.
Non conosco nemmeno lui. Si chiamava Kadir, Kadir Keseroğlu, giusto? Sembra un uomo ricco. No, non perché lo conosco, ha un aspetto che lo fa sembrare così. Un uomo ricco guarda dritto davanti a se, non ha le spalle curve come noialtri, gonfia il petto, a qualunque cosa gli serva… Ha un luccichio negli occhi che, brilla in continuazione e prende il cuore di chi guarda. Quando uno ha le tasche piene il suo aspetto è diverso. Di dov’era quest’uomo, cosa faceva?
E dove posso conoscerlo signor giudice? Non ho mai visto prima neppure Serdar Koz. Né ho sentito il suo nome. Com’è morto lui?
No, non conosco nessuno di questi. Non ne ho conosciuto neppure uno in tutta la mia vita. E dove avrei potuto vederli, sto tutto il giorno in casa a disossare polli e cucinare riso. Se esco è solo per andare all’alimentari o al mercato. Se li ho incontrati per caso lì una volta, non saprei. Ma non li conosco, non ce n’è uno con cui abbia incrociato lo sguardo una sola volta.
Forse c’è un’epidemia che i dottori non sanno diagnosticare, che ne so, o forse ognuno aveva un male incurabile. Come può una donnina come me stendere uomini grandi e grossi come quelli? Le pare possibile?
Io non ho fatto niente signor giudice. Giuro che non ho fatto niente. Solo…
Ma no, niente!
Mi è uscito dalla bocca, così. Non ho fatto niente io, mi lasci andare. A casa i bimbi mi aspettano, mio marito mi aspetta, i polli aspettano.
Ho lavorato di continuo per tutta la vita. Ho cresciuto cinque figli. Non ho mai fatto del male a nessuno, né fatto il malocchio a qualcuno. Dio lo sa, non ho mai fatto male nemmeno a una formica, ho soltanto disossato polli. Sono innocente signor giudice, mi lasci andare a casa.
Quando ho detto “solo”… Va bene, d’accordo, glielo dirò signore. Era durante lo scorso ramadan. Mustafa sarebbe uscito a lavoro prima dell’ultimo pasto notturno. Ho preparato il riso, il pollo, i ceci, l’ayran. Ci ho messo anche i peperoncini a fianco. Esattamente come sempre, né un grammo in più né un grammo in meno. Guardi, lo giuro, ho fatto proprio come faccio sempre. Mustafa ha riempito la carriola, è uscito. Quando è rientrato aveva la faccia sconvolta. Aveva venduto sì e no la metà del cibo. Tutti si erano lamentati. Non è venuto bene, ha detto, fallo come si deve, cucina come cucinavi prima, ha detto e è andato a dormire. Io mi sono concentrata al massimo signor giudice. Ho disossato i polli come ho sempre fatto, lessato i ceci come sempre, cucinato il riso come ho sempre cucinato. Ogni cosa esattamente uguale. Verso sera Mustafa ha preso la carriola e è uscito di nuovo. Quando è tornato aveva la faccia scura. Non funziona, ha detto, fai qualcosa che non va. O c’è qualcosa di troppo, o di poco.  Ho giurato e spergiurato. Non andare a dormire, gli ho detto, resta qui e guarda cosa succede mentre cucino. Così ha fatto. Ha visto come cucinavo, abbiamo assaggiato, non abbiamo trovato nessuna differenza, non capivamo. I ragazzi non hanno assaggiato certo, erano stufi di riso e pollo dopo tanti anni, non se lo avvicinano neppure alla bocca. Io ho detto allora, Mustafa, forse è per il ramadan, digiunano tutti. Forse la gente non sente bene i sapori. Si svegliano prima dell’alba per mangiare riso e pollo, deve venire strano, non ne hanno voglia. Questa spiegazione sembrò ragionevole anche a lui. Ma finito il ramadan la situazione non cambiò. Il riso non aveva più lo stesso sapore. Tutti quelli che si estasiavano mangiando il riso all’uscita dello stadio, davanti alle meyhane, sotto i ponti, per le strade di Beyoğlu avevano cambiato idea. C’erano anche quelli che rovesciavano il piatto e volevano i soldi indietro. A casa era scoppiato il finimondo signor giudice. Mustafa si è arrabbiato con me in un modo che non le sto a dire, me ne ha dette di tutte. Prima mi ha accusato di fare del male, di rovinare il cibo apposta.  Mi sono difesa, perché mai farei una cosa del genere, perché farei del male ai miei figli e a me stessa? Non si è fermato, mi ha accusato di essere incapace. Gli ho detto che facevo quello che faccio da cento anni, sempre lo stesso. Alla fine mi ha detto una cosa che mi è andata giù male signor giudice, sei invecchiata, ha detto, hai perso la mano, ha detto. Quando le donne invecchiano cucinano che è una buffonata, ha detto. Ora non so se abbia sentito questa frase davanti a una partita, all’uscita di una meyhane o al caffé. Ma quando l’ha detto mi sono sentita male signor giudice, come se ogni singola pietra posata con le mie stesse mani per costruire qualcosa mi fosse crollata addosso. Può mai essere tanto ingrata la vita? Si può scartare una donna con tanta facilità? Che infamia è! Ma ho trattenuto le lacrime, ho aperto la bocca senza dire una parola né ingoiare un boccone! Quella sera con l’anima tra i denti  ho cotto il riso, disossato il pollo, messo i ceci, prima che Mustafa uscisse senza farmi vedere da nessuno ho sputato con rabbia sul riso tre volte. Tuh…tuh…tuh…, ecco dopo averlo fatto mi sono alleggerita, mi è scesa addosso una gran calma. Con tre sputi i pozzi scuri nella mia anima se n’erano come volati via uno dopo l’altro. Mi è montato dentro un senso di rivalsa più gustoso di qualunque cosa abbia mai cucinato! Quella sera quando Mustafa è tornato la carriola era vuota, il suo volto sorridente. Così il giorno dopo prima che uscisse ho pregato, soffiato e sputato altre tre volte sul riso. Tuh… tuh… tuh… Ohh! Che sensazione straordinaria. Che leggerezza di cuore! Tuh… tuh… tuh… Come se il segreto della cosa fosse quello, ho continuato a benedire il riso con tre sputi. Da quel giorno gli affari sono aumentati. È successo persino che Mustafa sia tornato a casa a mezzanotte per riempire la carriola per il secondo turno. Per la prima volta la vita ci ha sorriso signor giudice. Ma ora lei dice che centoventi persone sono morte avvelenate per aver mangiato il riso della carriola. Ma le pare possibile? Com’è possibile che quelle montagne di uomini se ne siano andati così per qualche goccia di saliva uscita dalla bocca di una donna grande quanto un pugno? E se avessi veleno in bocca non sarei stata io la prima a andare all’altro mondo? Signor giudice, lo dica lei, sono forse Dio che posso prendere l’anima di un uomo io?

Trad. di G. Ansaldo


La moglie del venditore di riso è un racconto di Gaye Boralioğlu pubblicato nella raccolta Mübarek Kadınlar (Sante Donne) dalla casa editrice İletişim nel 2014 con il titolo Pilavcı karısı. Diritti riservati per la traduzione italiana ©Kaleydoskop, 2019 (su concessione dell’autrice).

Gaye Boralıoğlu, nata a Istanbul nel 1963 ha studiato letteratura e filosofia all’Università di Istanbul. Per molti anni ha lavorato come giornalista, pubblicitaria e sceneggiatrice. Ha pubblicato il primo libro di racconti nel 2001 dal titolo Hepsi Hikaye (Tutte Storie) tradotto in curdo e in arabo. Nel 2004 è uscito il suo primo romanzo Meçhul (Ignoto). Nel 2011 è stata insignita del premio Notre Dame de Sion per il romanzo Aksak Ritim (Ritmo Sconnesso) pubblicato nel 2009 e tradotto in arabo e tedesco. Ha scritto diversi libri per l’infanzia e il suo ultimo romanzo Dunya Aşağı (Mondo a rovescio) del 2018 è stato recentemente insignito del premio dedicato alla scrittrice femminista Duygu Asena.

Illustrazione di copertina di ©Kübra Kara.

 

 

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