Italia | Mondo – Mappe illustrate di Paesi che raccontano è una newsletter curata dall’autrice e sceneggiatrice Francesca Ceci che esplora il mondo attraverso le voci di scrittori, scrittrici e personaggi letterari. Abbiamo contribuito al numero di questo mese, dedicato a Istanbul, con un testo sulle trasformazioni che hanno coinvolto la città e altre aree del Paese. Il nostro viaggio attraverso la Turchia che cambia è arricchito da link che rimandano ai racconti pubblicati da Kaleydoskop e tradotti per la prima volta in italiano nella nostra rubrica.
La potenza ammaliatrice e il fascino del Bosforo non smetteranno mai di sortire effetti sugli abitanti di Istanbul né tantomeno sui viaggiatori di passaggio. Quel rallentamento del tempo, rimanendo pur sempre in movimento a bordo di un vaporetto che va avanti e indietro tra la parte europea e asiatica della città; quella sospensione dalla frenesia delle strade piene di gente, gatti, macchine, scooter, carretti, bus, cani, tram; quel sentimento di dover regalarsi per forza un quarto d’ora, seduti su una panca a guardare il cellulare o i gabbiani in volo, a fumarsi una sigaretta o a leggere un libro, a pensare o ad ascoltare frammenti dei discorsi di altri, almeno fino a quell’ultimo saltello per scendere e tornare di nuovo a mischiarsi alla folla, ai rumori, alla polvere. Trovarsi, così semplicemente, ad attraversare le acque di una delle venti metropoli più grandi del mondo, tagliando la strada a enormi cargo che inesorabilmente continuano a fare l’andirivieni tra il mar Nero e il mar Mediterraneo, in uno spazio definito nel tempo e confortato dalla costa su ogni lato, lascia lo sguardo muoversi in una prospettiva che ingurgita rapidamente cemento e secoli al fragore delle onde. Perché se all’inizio si resta con gli occhi ancorati agli edifici storici che affacciano sul Bosforo, alla punta del Serraglio, lì dove ancora nel verde c’è il Topkapi, vecchia dimora dei sultani, o si seguono per gioco le linee verticali dei minareti della Moschea Blu o Santa Sofia, o ancora si mantiene lo sguardo alla riva per non perdersi il palazzo del Dolmabahçe, poi poco alla volta lo sguardo si riempie di grattacieli, palazzi su palazzi, gru ed enormi cantieri. La silhouette della città, lo skyline, è forse la sintesi più immediata di quanto sia cambiata la Turchia negli ultimi anni. Istanbul si estende oramai a perdita d’occhio, e in macchina ci vogliono almeno due ore per attraversarla da un punto all’altro, quando non c’è traffico. E a parte il nucleo storico di Sultanahmet, il vecchio quartiere di Pera (oggi Beyoğlu) con i suoi palazzi costruiti tra l’Ottocento e inizio Novecento, e ciò che resta dei vecchi villaggi poco alla volta fagocitati dalla metropoli che continua ad affascinare tutti, il resto della città è una massa informe e claustrofobica di cemento e asfalto.
Tutte le colline sono state ricoperte in lungo e largo da palazzoni e conglomerati urbani privi di anima e talvolta anche di senso. Ci sono aree male connesse al centro, dove sono stati costruiti edifici tutti uguali tra loro, con venti o trenta piani, in alcuni casi promettenti residenze con vista mare o lontane dal caos che se ne stanno lì, vuoti, spettri di una speculazione che ha cambiato Istanbul e non solo, interi paesaggi urbani. Il terzo ponte sul Bosforo, il terzo aeroporto, città satellite hanno tirato i limiti della città. Certo, una rete di trasporti integrati funzionale ed efficiente ma molto costosa per chi ci abita facilita gli spostamenti e muove ogni giorno centinaia di migliaia di persone. Resistono i mercati, non solo il Gran Bazaar ed Eminönü dove ancora si può trovare qualsiasi cosa, dal caffè turco di Mehmet Efendi (la migliore torrefazione del paese) ai pezzi di idraulica, dalle bomboniere per la festa della circoncisione alla biancheria, ma anche quelli rionali dove si compra frutta, verdura, vestiti e prodotti per la casa che i venditori dichiarano non essere mai cinesi. Ma Istanbul è piena di scintillanti ed enormi centri commerciali, con grandi marche e cifre blu, dove si continua a comprare a rate grazie all’uso sproporzionato di carte di credito. In verità anche il centro è cambiato molto, grazie alle politiche di trasformazione urbana che sono state il motore dello sviluppo economico degli anni Duemila. Un quartiere intero, Sulukule, noto per essere il più antico insediamento della popolazione rom e sinti, non esiste più. Così come le antiche case di legno tipiche dell’edilizia ottomana nei vicoli subito sotto la Moschea blu sono state tutte laccate di colori sgargianti per diventare attraenti residenze per turisti. A Taksim non c’è più l’enorme capolinea degli autobus, che oggi passano invisibili nei tunnel sotto la piazza; è stato demolito (per poi essere ricostruito) il centro culturale Atatürk che durante le proteste di Gezi fu ricoperto di tutti gli striscioni dei vari gruppi politici; a dominare la piazza ora è una enorme moschea. Sull’Istiklal caddesi, la lunga via pedonale, al posto di tanti negozi e bar si sono aperte nuove rosticcerie e ristoranti per famiglie, destinati per lo più al crescente turismo dai paesi del Golfo.
Il cambiamento si legge anche nelle abitudini. Si beve sempre çay, a ogni ora, e non si è smesso di fumare sebbene anche qui oramai viga il divieto nei locali chiusi. Le sigarette costano tanto però, per non parlare degli alcolici. Soltanto quindici anni fa non si trovava che la birra Efes, raki e vino mentre ora nei bar si bevono cocktail e shot con ogni tipo di superalcolico ma a prezzi esorbitanti, un’eco della cool Istanbul degli anni Duemila schiacciata dalle tasse e dalla morale. La Turchia è cambiata anche fuori dalla grande metropoli: l’antica città di Hasankeyf, sul fiume Tigri, è sommersa dalle acque per la costruzione di una diga; la provincia di Muğla è devastata dalle centrali a carbone ma è anche successo che vecchi campeggi fricchettoni sono diventati ecovillaggi e sul Mar Nero un nuovo turismo selezionato ha portato all’apertura di piccoli caffè bio. Vale ancora la pena viaggiare per il paese in autobus, superattrezzati, e anche se non ci sono più le vecchie baracche per le soste ma più moderni autogrill, dai finestrini si scorge ancora un paesaggio in mutamento ma sorprendente e piccoli squarci del paese com’era ai tempi dei memorabili viaggi verso l’Est.
Immagine di copertina di Gabriele Peddes