Sono 1500 giorni che il giornalista e scrittore Ahmet Altan si trova in carcere.
Colpito dalle ondate di arresti che hanno fatto seguito al tentato colpo di Stato del 15 luglio 2016, Ahmet Altan è stato arrestato insieme al fratello Mehmet (commentatore politico e docente di economia) il 23 settembre del 2016. In questi quattro anni sono state avanzate le più disparate accuse nei suoi confronti, da terrorismo a tentato di colpo di stato. Attualmente è accusato di aver aiutato un’organizzazione terroristica senza esserne membro.
Nato nel 1950, Altan è uno dei giornalisti e scrittori di maggiore successo in Turchia. Entrato in parlamento nel 1967 come candidato socialista, si dedica al giornalismo dal 1974. Nel 1995 viene licenziato per pressione dello Stato Maggiore dal suo ruolo di caporedattore del quotidiano Milliyet, e condannato a venti anni con condizionale per una sua satira. Nel 1999 redige una dichiarazione per i diritti dell’uomo e i diritti culturali dei curdi insieme agli scrittori Orhan Pamuk e Yaşar Kemal. Nel 2007 fonda il giornale Taraf, dal quale dimissiona nel 2012. Nel 2008 viene accusato di insulto alla nazione turca in seguito a un suo articolo dedicato alle vittime del genocidio armeno. Nel 2011 riceve il premio per la pace dedicato a Hrant Dink.
In seguito all’arresto del settembre 2016 scrive dal carcere di Silivri un pamphlet di difesa in risposta all’atto d’accusa del pubblico ministero che viene pubblicato anche in Italia con il titolo “Ritratto dell’atto d’accusa come pornografia giudiziaria”. Di Altan sono inoltre presenti in italiano il romanzo “Scrittore e assassino”, le difese giudiziarie “Tre manifesti per la libertà” e i primi due romanzi della quadrilogia “Quartetto ottomano”, ovvero “Come la ferita di una spada” e “Amore nei giorni della rivolta”.
Rilasciato il 4 novembre 2019, nonostante la condanna a 10 anni e mezzo, dopo appena una settimana è stato riportato in carcere a causa del ricorso della procura contro la sentenza di scarcerazione. Lo scorso 7 gennaio la Corte di appello di Istanbul ha confermato la condanna a ulteriori 5 anni e 11 mesi.
Con l’intenzione di tenere alta l’attenzione sull’odissea giudiziaria di Altan proponiamo di seguito “Il paradosso dello scrittore”, una sua riflessione scritta dal carcere nel 2017 e pubblicata alla vigilia dell’inizio del suo processo.
“Un oggetto in movimento non è né dov’è né dove non è, afferma Zenone nel suo celebre paradosso. Fin da quando ero giovane ho sempre pensato che si applicasse di più alla letteratura o, nello specifico, agli scrittori, che non alla fisica.
Sto scrivendo queste parole dalla cella di una prigione.
Mettete la frase “Sto scrivendo queste parole dalla cella di una prigione” in una qualsiasi narrazione e vedrete come essa si carichi subito di tensione e di vita, è una voce spaventosa che emerge da un mondo oscuro e misterioso, l’ardita presa di posizione di uno sventurato che non si abbatte e una mal celata richiesta di clemenza.
È una frase pericolosa, che si può usare per approfittare dei sentimenti delle persone. E gli scrittori non sempre riescono a trattenersi dall’usare le frasi in modo funzionale ai propri interessi quando è in gioco la possibilità di toccare l’emotività del prossimo. Anche il solo capire che è quello il loro intento può bastare al lettore per provare pietà per l’autore di una tale frase.
Ma un attimo. Prima che iniziate a provare pietà per me sentite cos’ho da dirvi.
Sì, mi tengono in un carcere di massima sicurezza in mezzo al nulla.
Sì, sto in una cella dove la porta si apre e si chiude allo stridere e schioccare del ferro.
Sì, mi passano i pasti da un buco in mezzo alla porta.
Sì, perfino la sommità del minuscolo cortile col pavimento di pietra dove passeggio su e giù è ricoperta di grate d’acciaio.
Sì, non mi è consentito vedere nessuno se non i miei avvocati e i miei figli.
Sì, mi è proibito anche scrivere due righe ai miei cari.
Sì, se devo andare in ospedale tirano fuori le manette da un ammasso di ferraglia e me le mettono ai polsi.
Sì, ogni volta che mi tirano fuori dalla cella ordini come “mani in alto, togliti le scarpe” mi colpiscono come uno schiaffo in pieno viso.
È tutto vero, ma non è tutta la verità.
Nelle mattine d’estate, quando i primi raggi del sole entrano dalle sbarre della mia finestrella e trafiggono il mio cuscino come lance splendenti, sento il canto gioioso degli uccelli di passaggio che hanno fatto il nido sotto le grondaie del cortile e lo strano scricchiolio che fanno i prigionieri che passeggiano negli altri cortili schiacciando sotto i piedi le bottiglie d’acqua vuote.
Vivo con la sensazione di abitare ancora nella casa col giardino in cui ho trascorso l’infanzia o, per chissà quale motivo (non ho proprio idea quale sia) di trovarmi in uno di quegli alberghi da gaia stradina francese come nel film Irma la dolce.
Quando mi sveglio al suono della pioggia autunnale che batte sulle sbarre, portando la furia dei venti del nord, la mia giornata inizia sulle rive del Danubio, in un albergo con delle fiaccole all’ingresso, che vengono accese ogni notte. Quando mi sveglio col bisbiglio della neve che si accumula fra le grate in inverno, la mia giornata inizia nella dacia con la finestra sul davanti in cui si rifugiò il dottor Zivago.
Finora, non mi sono mai svegliato in prigione, nemmeno una volta.
Di notte, le mie avventure sono ancor più cariche di azione. Vago per le isole della Thailandia, gli alberghi di Londra, le strade di Amsterdam, i labirinti segreti di Parigi, i ristorantini in riva al mare di Istanbul, i piccoli parchi nascosti fra le strade di New York, i fiordi della Norvegia, i paesini dell’Alaska con le loro strade sommerse di neve.
Potrete incontrarmi sui fiumi dell’Amazzonia, sulle spiagge del Messico, nelle savane dell’Africa. Parlo tutto il giorno con persone che nessuno vede o sente, gente che non esiste e non esisterà mai finché io non ne parlerò. Li ascolto conversare fra loro. Vivo i loro amori, le loro avventure, speranze, gioie e preoccupazioni. A volte ridacchio mentre passeggio in cortile, perché mi arriva per caso qualche loro discorso, e sono piuttosto interessanti. Non voglio metterli sulla carta mentre sono in prigione, quindi mi sono stampato tutto nei meandri della mente con l’inchiostro scuro della memoria.
So di essere uno schizofrenico finché tutta questa gente mi resta in testa. Ma so anche di essere uno scrittore quando si ritrova nelle frasi delle pagine di un libro. Mi piace oscillare avanti e indietro fra schizofrenia e autorialità. Mi libro come fumo e lascio la prigione insieme ai personaggi che vivono nella mia testa. Saranno anche riusciti a incarcerarmi, ma nessuno ha il potere di tenermi in prigione.
Sono uno scrittore.
Non sono né dove sono né dove non sono.
Ovunque mi chiuderete viaggerò per il mondo sulle ali della mia mente sconfinata.
Oltretutto, ho amici in tutto il mondo che mi aiutano a viaggiare, e la maggior parte di loro non l’ho mai incontrata.
Ogni sguardo che legge ciò che ho scritto, ogni voce che ripete il mio nome, mi tiene per mano come una nuvoletta e mi fa volare su pianure, sorgenti, foreste, mari, strade e città. Mi ospitano in silenzio nelle loro case, nei loro saloni, nelle loro stanze.
Viaggio per tutto il mondo dalla cella di una prigione.
Come potete ben immaginare, la mia è arroganza bell’e buona: un’arroganza che non spesso si ammette ma è tipica degli scrittori e si trasmette da una generazione all’altra da migliaia e migliaia di anni. Ho una sicurezza che cresce come una perla al riparo del guscio resistente della letteratura. Ho un’inviolabilità protetta dalla corazza d’acciaio dei miei libri.
Lo sto scrivendo dalla cella di una prigione.
Ma non sono in prigione.
Sono uno scrittore.
Non sono né dove sono né dove non sono.
Potete imprigionarmi, ma non potete tenermi in prigione.
Perché, come tutti gli scrittori, ho il dono della magia. E so benissimo passare attraverso i muri.”
Pubblicato in inglese da The Society of Authors il 18 settembre 2017 e ripreso in italiano da Reset
Traduzione di Chiara Rizzo
Immagine di copertina di Gianluca Costantini