Pubblichiamo qui un articolo di approfondimento con l’intervista a uno studente dell’Università del Bosforo sulle proteste nel campus e fuori.
Il 31 gennaio un gruppo di studenti della Boğaziçi Üniversitesi (Università del Bosforo) di Istanbul, giunto allora al 27° giorno consecutivo di protesta pacifica e nonviolenta di tutto il corpo accademico contro la nomina del rettore Melih Bulu da parte del presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdoğan, viene per l’ennesima volta circondato dalla polizia. Gli uomini in tenuta antisommossa bloccano gli accessi al Güney Kampüs (Campus Sud, dove ha sede il palazzo del Rettorato), dove dal 22 gennaio era allestita una mostra – BoUn Sergi – che costituisce parte integrante della manifestazione di dissenso: oltre 400 disegni, fotografie, sculture, performance e suoni raccolti ed esposti a sostegno della comunità accademica in protesta. Il 31 gennaio, la polizia che cerca di disperdere con violenza l’ennesima folla radunatasi nel Güney Kampüs, intima a un manifestante: «Aşağı bak!», guarda in basso! Dalla risposta degli studenti è nato uno dei motti più evocativi di questo movimento di protesta: #aşağıbakmayacağız (non abbasseremo lo sguardo).
Melih Bulu: il rettore “kayyum”
Per riassumere e spiegare cosa stia succedendo in Turchia è necessario un passo indietro, agli inizi del gennaio 2021. Un altro slogan, forse ormai più noto, aiuta a introdurre il tema principale che ha dato via alla protesta della comunità accademica di Boğaziçi: «Kayyum rektör istemiyoruz!», non vogliamo un rettore fiduciario. È questo ciò che viene ripetuto ogni giorno dal 4 gennaio nei cortili del Campus Sud dell’università, e non solo. Perché da allora si è diffuso rapidamente come hashtag sui social network, e in tutta la Turchia come grido dei vari movimenti sorti in solidarietà ai manifestanti della prestigiosa università di Istanbul. Il riferimento è diretto alla nomina di Melih Bulu come rettore, effettuata il 1° gennaio dal presidente della Repubblica. Studenti e docenti di Boğaziçi lo definiscono, appunto, un kayyum: un fiduciario del partito al governo, nominato ignorando qualsiasi principio di consultazione democratica della comunità accademica che è chiamato a dirigere. Fondatore della sezione dell’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo, il partito di Erdoğan) del distretto di Sarıyer di Istanbul, Bulu ha corso come candidato alle primarie per le elezioni parlamentari del 2015. La sua appartenenza al partito di governo non è l’unico aspetto che suscita diffidenza tragli studenti e i docenti di Boğaziçi. Dalla tesi di dottorato apparentemente frutto di plagio, alla scarsa performance accademica in termini di citazioni e pubblicazioni, a una carriera universitaria rapidissima che lo vede essere stato già nominato rettore in due diverse università turche: il curriculum accademico del professor Bulu desta almeno tanti sospetti quanto quello politico.
Perché Boğaziçi?
Va sottolineato che Melih Bulu non è il primo, né probabilmente sarà l’ultimo rettore nominato dal presidente della Repubblica. Anzi: è proprio questa la prassi prevista dalla legge in Turchia. È così dagli anni Ottanta quando, dopo aver realizzato un colpo di stato violento, il regime militare insediatosi alla guida della Turchia riscrisse la Costituzione e ridisegnò l’intero sistema politico, sociale e istituzionale, intervenendo anche nel campo dell’istruzione tramite la creazione del Consiglio per l’Istruzione Superiore (YÖK, Yüksek Öğretim Kurulu). Da allora, lo YÖK regola tutto ciò che riguarda l’educazione in Turchia, compresa la predisposizione di una lista di nomi per la carica di rettore di tutte le università, la cui selezione e nomina spetta in ultima istanza al Presidente. Perché, dunque, nasce solo ora un movimento di protesta di queste dimensioni in opposizione alla nomina di un rettore? Che cos’ha Melih Bulu in più (o in meno) rispetto ai tanti altri vertici nominati da Beştepe? A queste (e altre) domande ha risposto Umut, giovane laureato in Ingegneria a Boğaziçi, parte integrante di questa comunità accademica e membro attivo dell’associazione Boğaziçi Üniversitesi Mezunlar Derneği (Associazione dei Laureati dell’Università del Bosforo).
«Boğaziçi è una delle università più importanti e prestigiose della Turchia», spiega Umut: «in primo luogo, direi che è per questo motivo che ha fatto tanto rumore. Ma anche perché, in quanto tale, ha sempre avuto una tradizione di docenti e ricercatori di alto livello» che le hanno consentito di mantenere alti i propri standard educativi e nel campo della ricerca, riconosciuti a livello internazionale. Anche tralasciando i sospetti di plagio della tesi di dottorato, il nuovo rettore non possiede le credenziali sufficienti a giustificare una nomina così prestigiosa. E, aspetto assolutamente non secondario, non è un Boğaziçili (un membro della comunità accademica di Boğaziçi), ma un rettore impiantato alla guida dell’Università del Bosforo pur provenendo da un contesto totalmente estraneo.
«Melih Bulu non è il primo rettore nominato dal Presidente della Repubblica, questa è la prassi in Turchia. E non è il primo ad essere organico all’AKP, anche qui a Boğaziçi» spiega Umut. Il suo predecessore, Mehmed Özkan, era allo stesso modo vicino al partito. Si insediò nel 2016, in sostituzione dell’apprezzatissima rettrice di allora, Gülay Barbarosoğlu, che fu proposta allo YÖK al termine di una consultazione democratica come tradizione di Boğaziçi. All’atto della nomina di Özkan, racconta Umut, ci furono proteste simili ad oggi: «furono però meno accese, il dissenso non era così aspro nei suoi confronti». Nonostante fosse anch’egli vicino al partito di governo, «era comunque un docente di Boğaziçi, anche lui era un Boğaziçili. Ciò dava garanzie sul fatto che, al di là del colore politico, avrebbe tutelato gli interessi della nostra università» spiega Umut, che sottolinea quanto sia importante e vivo il sentimento di appartenenza all’Università del Bosforo, che «non ha eguali in nessun’altra università della Turchia, neanche in quelle che al momento occupano posizioni più elevate nelle classifiche internazionali».
È proprio questo senso di appartenenza che non solo ha rafforzato la percezione di Bulu come corpo estraneo, ma che ha fin da subito reso compatta la comunità accademica di Boğaziçi: non semplicemente gli studenti, anche gli stessi docenti si oppongono a questa nomina. Lo dimostra il fatto che Melih Bulu non è riuscito a trovare sostegno nel corpo accademico se non dopo un mese, quando il professore Gürkan Kumbaroğlu ha accettato l’incarico di vicerettore suscitando enormi critiche dai colleghi.
I metodi di protesta e la mostra d’arte BoUn Sergi
«La protesta è da subito stata pacifica e nonviolenta», sostiene Umut. Basta guardare le tantissime foto e video pubblicati dai giornali indipendenti e/o postati nei vari profili social dei manifestanti e della piattaforma Boğaziçi Dayanışması (@boundayanisma su Twitter), rappresentativa delle istanze dei manifestanti, per rendersene conto. Oltre i vari cortei e sit-in, balli, canti e cori sono gli strumenti più utilizzati all’interno dei quali far convogliare le tante voci di protesta presenti quotidianamente al Güney Kampüs e non solo. Satira e tagliente ironia, non nuove a chiunque segua i movimenti di protesta in Turchia, caratterizzano le espressioni degli studenti. È il caso, ad esempio, della risposta al maldestro tentativo di Melih Bulu di presentarsi come un rettore giovane, alla mano, che “ascolta i Metallica”. Oltre a riprodurre verso le finestre del suo ufficio l’album del noto gruppo metal statunitense, dal titolo già di per sé allusivo Master of Puppets (“maestro di marionette/burattinaio”), gli studenti hanno intonato alcune canzoni dei Metallica adattando titolo e testi al tema della protesta contro il kayyum. Ne è un esempio la canzone “For Whom the Bell Tolls”, modificata in “Boyun eğmeyiz” (non ci piegheremo).
Ma non solo. Sono stati organizzati seminari e lezioni all’aperto negli spazi del Campus, e una serie di attività a sostegno della protesta delle quali la più significativa è stata sicuramente la mostra BoUn Sergi, inaugurata il 22 gennaio. Come si legge nelle comunicazioni degli organizzatori (@bounsergi), oltre 150 artisti da tutto il mondo hanno donato più di 400 opere, più o meno esplicitamente legate alla protesta contro Bulu e alla libertà accademica di Boğaziçi: dalle vignette satiriche che raffigurano Bulu ed Erdoğan, a quadri e dipinti, a varie performance sonore e visive.
La risposta dello Stato turco
Di fronte al perdurare e al crescere della protesta, il governo ha da subito cercato la via della delegittimazione e della polarizzazione. Il Presidente Erdoğan ha etichettato gli studenti riuniti quotidianamente a Boğaziçi come “terroristi”; il suo alleato di governo, Devlet Bahçeli del partito ultranazionalista MHP, ha utilizzato i termini “vandali” e “barbari”; il responsabile della Comunicazione della Presidenza della Repubblica, Fahrettin Altun, ha pubblicato una videointervista in inglese nella quale – mostrando capziosamente immagini di schermaglie tra manifestanti e polizia – attacca duramente gli «studenti radicalizzati» che «mettono a repentaglio l’incolumità fisica e danneggiano i beni pubblici». Stessa sorte di delegittimazione e accusa è toccata a chiunque abbia manifestato sostegno alla protesta, compresa la leader della sezione di Istanbul del maggior partito d’opposizione (CHP) Canan Kaftancıoğlu, che sin dai primi giorni aveva mostrato vicinanza agli studenti, insieme al sindaco metropolitano di Istanbul Ekrem İmamoğlu (CHP) e a vari membri delle opposizioni turche (soprattutto CHP e HDP).
Purtroppo, le strategie di contrasto non si sono limitate a una delegittimazione verbale, ma sono sfociate ben presto nella violenza delle forze dell’ordine e nella cattura e arresto di alcuni manifestanti. Ciò è avvenuto con i più vari pretesti, come nel caso dei quattro studenti arrestati, etichettati (nelle parole del ministro dell’Interno Soylu) come «quattro pervertiti LGBT», e accusati di aver oltraggiato uno dei simboli religiosi più importanti dell’Islam, la Kaaba, raffigurata insieme a una bandiera arcobaleno. Ma anche senza alcun pretesto. Come nel caso degli studenti Doğu e Selahattin.
Racconta Umut: «La notte del 31 gennaio, una volta terminata la giornata di attività nel Campus, sulla via di casa Doğu e Selahattin si sono accorti di essere seguiti. Non riuscendo a seminare le figure al loro seguito, decidono di recarsi in una stazione di polizia e denunciare il fatto. Da lì non sono più usciti». Sono stati arrestati, senza alcuna ragione e «senza aver fatto nulla, solo per fare di loro dei capri espiatori», degli altri responsabili da etichettare con quegli aggettivi: “terroristi, blasfemi, vandali”.
Le richieste e la crescita del movimento di protesta
Da quando è avvenuta la nomina e sono cominciate le proteste, con il dipanarsi degli eventi finora esposti, le richieste iniziali dei manifestanti sono state formalizzate:
- L’immediato rilascio di tutti gli studenti e i manifestanti ingiustamente in fermo e/o incarcerati;
- Il celere abbandono degli spazi dei campus universitari da parte delle forze di sicurezza;
- Le dimissioni di Melih Bulu;
- Il consolidamento di un sistema democratico di selezione delle cariche accademiche.
Questo breve elenco, però, non è più sufficiente. Al crescere della repressione e della resistenza pacifica degli studenti di Boğaziçi è cresciuta la solidarietà. E con essa le dimensioni della protesta, che dal Güney Kampüs si è presto estesa al di fuori di Istanbul, in tutta la Turchia. Non solo in termini numerici, ma anche di portata e ambizioni delle richieste, che non riguardano più solo le questioni interne all’Università del Bosforo. Nella “Lettera al 12° Presidente della Turchia”, pubblicata il 6 febbraio e reperibile nei profili della piattaforma Boğaziçi Dayanışması (qui in italiano), gli studenti si rivolgono direttamente a Erdoğan, non solo denunciando esplicitamente la nomina di Bulu e chiedendone le dimissioni. Questa coraggiosa lettera è il segno di un cambio di passo delle proteste; chiede conto di tutti gli attacchi alla libertà e ai diritti subiti nel quasi-ventennio Erdoğan: dall’uccisione del giornalista turco armeno Hrant Dink all’incarcerazione di Selahattin Demirtaş, ex co-leader del partito HDP; dalla fomentazione dell’odio razzista, omofobo e sessista da parte del governo, alla crisi economica e sociale nella quale è piombata la Turchia. La persistenza e la crescita delle proteste di Boğaziçi non sono passate inosservate di fronte a chiunque conosca la storia recente della Turchia: sono sempre di più e sempre più suggestivi i parallelismi che possono essere fatti con le proteste di Gezi Parkı del 2013. Anche Gezi partì come protesta legata a una questione locale (allora, la tutela di un parco cittadino nel cuore di Istanbul dalla cementificazione e dalla mercificazione dello spazio pubblico) e presto diventò megafono per il malcontento generale nei confronti delle politiche del governo.
Ciò non è passato inosservato neanche agli occhi dello stesso governo turco, che ha alzato il tenore delle risposte. Non solo tramite massicci schieramenti di forze dell’ordine e mezzi blindati: nella notte del 5 febbraio un decreto del Presidente Erdoğan ha annunciato l’apertura di due nuove facoltà a Boğaziçi. Anche questo rappresenta un notevole cambiamento di fase. Da un lato perché implicherà un’iniezione di nuovi docenti e personale, anch’esso non-Boğaziçili e verosimilmente vicino all’AKP (com’è già evidente nelle nomine dei due direttori delle nuove facoltà). L’altro motivo è più subdolo, meno esplicito ma non meno allarmante. Come spiega Umut, all’interno del corpo accademico di Boğaziçi girano sempre più indiscrezioni sulla volontà da parte del governo di trasferire l’università in un nuovo campus fuori città e vendere la storica sede con vista sul Bosforo a una cordata di affaristi del Qatar. L’apertura di nuove facoltà e il conseguente arrivo di migliaia di nuovi studenti potrebbe costituire la giustificazione finale per il trasferimento dell’intero corpo accademico in un’altra, più spaziosa sede. Si tratta di indiscrezioni che, se dovessero essere confermate, rappresenterebbero un altro parallelismo con ciò a cui il movimento di Gezi si opponeva e da cui partì: la privatizzazione di spazi pubblici (allora un parco in pieno centro, oggi l’università con uno dei più bei panorami della città) e il loro sfruttamento ai fini del profitto e dell’interesse privato. (C.S.)